La mossa del cavallo
spiazza gli alleati

È a rischio uno dei presupposti che hanno consentito la nascita del governo Conte-bis e il rovesciamento della maggioranza con la sostituzione della Lega con il Pd. Questo presupposto riguarda il legame tra la riforma costituzionale che taglia il numero dei parlamentari e che verrà sottoposta a referendum confermativo il 20 settembre, con quella della legge elettorale. Ricorderà il lettore che nella pazza crisi dell’agosto 2019 il Pd accettò il seguente compromesso: diciamo sì al taglio dei deputati e senatori voluto dai Cinque Stelle – fino a quel momento rifiutato per tre volte dal centrosinistra con toni anche molto accesi sino all’accusa di incostituzionalità – a patto di avere prima dell’entrata in vigore della legge costituzionale una nuova normativa elettorale.

E questa normativa doveva basarsi sul vecchio sistema proporzionale (con sbarramento) che avrebbe definitivamente mandato in soffitta il maggioritario della Seconda Repubblica, delle coalizioni contrapposte, dei candidati premier come protagonisti del duello per la conquista del potere. Con un vertiginoso salto all’indietro, la Terza Repubblica dai colori giallo-rossi sarebbe tornata alla prima, caratterizzata dal sistema a canne d’organo del proporzionale per cui ogni partito raccoglie i voti che può e poi in Parlamento ci si accorda sul governo da fare (sistema che fu la causa della permanente precarietà dei governi dei decenni ’50-’80).

Solo a questa condizione il Pd di Zingaretti accettò il programma per formare il Conte-bis. Anche Matteo Renzi fu d’accordo, in quel momento. Ora però il suo partito ci ha ripensato e ha cambiato posizione: secondo l’ex premier – lo ha anche scritto nel suo recente libro «La mossa del cavallo» – il proporzionale è motivo, appunto, di instabilità dei governi mentre oggi serve avere esecutivi di lunga gittata che sappiano progettare lo sviluppo, e dunque secondo lui bisogna tornare al maggioritario degli anni ’90 e anzi rafforzarlo con l’elezione diretta del premier o del presidente della Repubblica. Il punto è che senza i voti di Italia Viva non si riesce ad approvare in Parlamento, e soprattutto al Senato, la riforma già concordata tra i partiti e che porta il nome di «Germanicum» perché vicino al sistema tedesco.

Il cambio renziano – potremmo dire: la mossa del cavallo del leader fiorentino – sconvolge i piani della maggioranza e allarma Pd e M5S. Soprattutto il Pd che, in assenza di una legge elettorale, reputa addirittura «pericolosa» l’entrata in vigore della riforma costituzionale sul numero dei parlamentari approvata in doppia lettura dalla Camera e dal Senato e ora oggetto del referendum. Il Pd in quell’occasione potrebbe non impegnarsi per il «sì» lacerando il patto con i grillini.

Sale dunque la tensione tra gli alleati e, come sempre accade, questa tensione si scarica sul governo che, come è noto, si regge in piedi per pochi voti e grazie ad un accordo assai precario. Sarebbe il Pd disposto, per silurare il referendum, addirittura a far saltare Conte? Difficile ipotizzare una mossa così avventurista in un uomo cauto come Zingaretti: le dimissioni di Conte significherebbero far saltare il piano per i 200 miliardi del Recovery Fund in un autunno che si preannuncia difficilissimo. Dunque è da scartare come ipotesi. E tuttavia il nervosismo serpeggia e si ingigantisce ogni giorno di più. I Cinque Stelle tengono alla riforma del numero dei parlamentari come ad un fatto che riguarda la loro identità e quindi non cederanno mai sulla sua difesa. Ma il Pd ha anche un interesse di partito da tutelare. La mossa di Renzi ha spiazzato i piani degli alleati e rimesso Italia Viva al crocevia delle trattative. Ma il prezzo di questo successo tattico potrebbe essere elevato per tutti.

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