La pallavolo alza i trofei che il calcio non vince più

Negli stessi minuti in cui il capitano della Nazionale italiana di volley maschile, Simone Giannelli, alzava la coppa del quarto Mondiale vinto dagli azzurri, il suo collega della Nazionale italiana di calcio, Leonardo Bonucci, alzava le mani contro giocatori della Salernitana, preso dall’isteria per un gol annullato nel finale di una partita di Serie A che, per quanto importante, non avrebbe deciso niente se fosse terminata con un risultato diverso.

Mani in alto, ma per ragioni radicalmente diverse: è questa la fotografia più efficace dello sport italiano in questa fase: discipline, le più diverse, che vincono, e il calcio che perde. Dall’estate 2021 l’Italia ha vinto praticamente tutto, inclusi - a onor del vero - gli Europei di calcio. Anzi: sono stati proprio gli Europei di calcio a dare il via a una stagione di successi talmente eccezionali che risulta impossibile metterli in fila. Dalle Olimpiadi in poi, l’Italia è stata protagonista ovunque, e in ogni disciplina, di massa o di nicchia.

E il Mondiale vinto dal volley maschile ne è l’ultimo, entusiasmante tassello. Ultimo sperando che sia penultimo, data la crescente attesa attorno alle partite della Nazionale di basket, impegnata agli Europei e reduce dal successo sulla Serbia.

Nel frattempo, però, due cose sono successe, nel calcio. La prima è che l’Italia è tornata dove era prima dell’Europeo, cioè a un livello così modesto da non riuscire a qualificarsi al Mondiale. Perso quello del 2018, l’Italia non giocherà nemmeno quello del 2022. Dopo l’edizione vinta nel 2006, ai Mondiali l’Italia non è mai più stata capace non «solo» di vincere, ma prima di competere, poi persino di andarci.

La seconda è che nelle competizioni internazionali il calcio italiano non riesce più a vincere nulla, e, anche qui, nemmeno a competere. Fatto salvo il «segno di vita» dato dalla Roma nella Conference League 2022, che sposta di poco il bilancio complessivo, là dove conta davvero, là dove giocano i più forti, in Champions League, siamo fermi al successo dell’Inter. Datato 2010. E in Europa League siamo fermi addirittura al 1999, ai successi del Parma.

Siamo dunque al puro paradosso: lo sport più popolare in Italia è quello da cui l’Italia ricava meno soddisfazioni.

Situazione singolare, ma non priva di cause e logiche conseguenze. Le cause della crisi di risultati del calcio vanno scavate in profondità. Da un lato, il calcio si guarda ma non si fa, non si gioca. O si gioca sempre meno. Anche per banali ragioni urbanistiche: un campo da calcio richiede spazio, e lo spazio - specie in città - è sempre meno. Dentro un parco è possibile «regalare» un campo da volley o da basket, ma non un campo da calcio. Quindi occorre accontentarsi di quelli che ci sono, dove però quasi mai puoi entrare liberamente per «due tiri» portandoti il pallone da casa. E meno si gioca, più diminuisce la possibilità che nascano campioni. La generazione di Baggio, Totti, Del Piero, Vieri, Cassano, Cannavaro, Pirlo, Buffon: sono tutti nati tra fine anni ’60 e primi ’80. Poi, il calcio italiano ha smesso di sfornare campioni (per non dire dei fuoriclasse), ma solo buoni giocatori, coi quali vinci un Europeo se tutte le stelle si allineano a tuo favore, ma poi la realtà s’incarica di rimettere le cose al loro posto.

Meno si gioca, meno giocatori ci sono. E dunque la spirale compie il passo successivo: se non ci sono giocatori si cercano all’estero. Il problema non è «solo» quanti stranieri giocano in Serie A: lì, se uno è bravo, forse ci arriva lo stesso. Il problema è quanti stranieri ci sono nei settori giovanili, «importati» poco più che ragazzini. Magari diventano anche ottimi giocatori. Ma poi, ai Mondiali, ci vanno con le loro Nazionali e all’Italia non resta che cercare ogni scappatoia per naturalizzare chiunque. E perdere lo stesso, peraltro.

© RIPRODUZIONE RISERVATA