La politica del rinvio
non regge all’infinito

Il ruolo fa spesso il carattere. Così è stato per Conte. Proposto premier dai Cinquestelle come la punta di lancia contro la casta dei politici, l’avvocato del popolo ha fatto presto di necessità virtù. Costretto a mediare tra partner bellicosi, ha finito per reinventarsi il ruolo di vigile custode del potere, tanto da essere considerato da molti la stessa personificazione del democristiano, il politico che della conservazione del potere faceva la sua regola di vita. «Meglio tirare a campare che tirare le cuoia» – rispondeva Giulio Andreotti a quanti lo accusavano di ricorrere alla tattica del rinvio pur di non mettere a repentaglio la tenuta della maggioranza. Per il suo cinismo si procurò così la nomea di Belzebù. Ma la sua colpa era solo di dire quello che tutti i suoi compagni di partito – da Rumor allo stesso Moro, con la sola eccezione di Fanfani – facevano regolarmente.

Della Democrazia cristiana «condannata a governare» (come con falso spirito di sacrificio cercava di giustificare la sua ininterrotta permanenza alla guida del Paese) Conte è diventato un emulo coscienzioso. Invece del fare, ha fatto del rinvio la regola di vita, traendone – bisogna riconoscere – sino a oggi grande profitto. Senza un proprio partito e senza una legittimazione elettorale, si è guadagnato non solo un ruolo, ma anche una popolarità di cui nessuno pensava potesse essere capace. Almeno sino a oggi, perché non è affatto detto che gli riesca di ottenere anche in futuro gli stessi brillanti risultati.

Sono cambiati i tempi rispetto a quando regnava la Balena Bianca: l’enorme cetaceo che non si muoveva, ma restava signore dei mari. La Dc non si muoveva perché era paralizzata da aspre lotte intestine. Più che un partito era una federazione di correnti, l’una contro l’altra armate per spartirsi e, possibilmente, guadagnare potere. Restò, comunque sempre il partito dominante, grazie al rispetto della condizione base per la conservazione del potere: litigare, sì, all’interno, ma presentarsi unita nei confronti di antagonisti e avversari. Conte non ha valutato che i tempi sono cambiati, che attenersi alle regole di un tempo può portare oggi a esiti opposti. Tirare a campare potrebbe portare a tirare le cuoia.

La prima differenza rispetto al passato è che la maggioranza giallorossa non è capace di contenere la sua litigiosità interna entro i limiti che ne assicurino la tenuta. La seconda è che il Paese non si può più permettere il lusso di disporre di un governo inoperoso. Sprofondati in una crisi, che più nera non si può, gli italiani invocano un pronto intervento di salvataggio. Esattamente il contrario della politica del rinvio, che – bisogna però riconoscere – Conte è condannato a seguire se non vuole far saltare la sua maggioranza. Non passa giorno che M5s, Pd, Italia viva e LeU non debbano prendere atto delle distanze che li separano.

Ultimo in ordine di tempo il caso del «decreto semplificazioni», per non dire del Mes, della scuola e della legge elettorale. Annunciato pomposamente dal premier come «la madre di tutte le riforme», anche questo decreto soffre di tutte le estenuanti contrattazioni che hanno reso pasticciate alla fine le altre misure, sinora attuate dal governo. Lo stesso Andreotti ha pagato a caro prezzo il fatto di non aver capito in tempo, all’esplodere di Tangentopoli, che non poteva più salvarsi «tirando a campare». Infatti, per il partito che aveva dominato la scena per mezzo secolo, si compì a quel punto il destino di tirare le cuoia.

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