La rabbia
e la giustizia

Tornava alla mente, ieri, quella domenica di poco più di 11 anni fa. Era il 2 dicembre 2007. La prima partita in casa dell’Atalanta dopo il famigerato «tombino». Era una partita giocata a «curva chiusa» perché quel giorno di 11 anni fa la Nord era squalificata. Venti giorni prima, l’11 novembre 2007, un fatto entrato nella storia: Gabriele Sandri, tifoso della Lazio, ucciso in autostrada da un agente con un colpo di pistola. Fuori dallo stadio fu guerriglia, un’alleanza inedita tra tifoserie contro polizia e carabinieri perché nel rispetto di un morto Atalanta-Milan non la si doveva giocare.

Mentre invece l’odiatissimo «palazzo» del calcio confermò il programma di giornata. E per bloccare la partita, una parte della Nord usò un tombino per sfondare ed entrare in campo. Venti e rotti giorni dopo, il 2 dicembre 2007, l’Atalanta fece 5 gol al Napoli, supportata dal tifo dei bambini. La realtà superò l’immaginazione, quel giorno. Ma ancor di più, forse, la realtà ha superato l’immaginazione ieri. Stesso stadio, avversario diverso, stesso timore di finire in un incubo. E invece, 11 anni dopo, siamo qui a raccontare una vittoria molto diversa.

Inutile nasconderlo: dopo i fatti di Firenze, la possibilità che le tifoserie si alleassero per cercar vendetta contro le forze dell’ordine c’era. Il timore che il pomeriggio di ieri si trasformasse nell’ultimo, triste capitolo delle guerriglie da stadio di Bergamo non era patrimonio esclusivo dei pessimisti. Invece, i tifosi di Bergamo, gli ultras di Bergamo, hanno dato una prova sul campo della loro maturità, della loro «crescita», del loro allontanamento dalla violenza. Hanno chiesto giustizia, fuori dallo stadio. Hanno gridato rabbia, dentro. A modo loro, con i cori che sentiamo da sempre e che saltuariamente per anni, non possiamo dimenticarlo, hanno fatto da sottofondo agli assalti, alle sassaiole, agli scontri con avversari o forze dell’ordine. Stavolta no, e lo sottolineiamo con la stessa forza con la quale tante volte abbiamo dovuto condannare gli atti di violenza. Per chi da sempre sta sulla sponda opposta delle forze dell’ordine sarebbe stato fin troppo facile, forti dei fatti di Firenze, la cui dinamica ormai è abbastanza chiara, scendere in strada a regolare i conti. Non è successo.

Va detto anche che le forze dell’ordine bergamasche, ieri come nei giorni scorsi, hanno tenuto un atteggiamento molto accorto. «Basso profilo», zero dichiarazioni, corteo prepartita giustamente solo «osservato», nessuna «militarizzazione» eccessiva dello stadio. Niente elicottero in volo, sirene al minimo sindacale, lo striscione sulla «verità», che in altri stadi d’Italia è stato vietato, qui è entrato in curva senza ostacoli. Tutto quel che s’è potuto fare per non far salire i giri della tensione, lo si è fatto e il risultato è stato raggiunto.

Adesso, dato che la cronaca ha di fatto finito il suo compito, toccherà ad altri dare a tutti la verità sui fatti di Firenze. Si dovrà fare luce vera su quell’angolo buio della superstrada di Firenze. Si dovrà togliere la sensazione che qualcuno abbia perso il controllo della situazione. Nelle forze dell’ordine crediamo, perché non ci può essere Stato laddove non c’è fiducia nella lealtà di chi indossa una divisa. Ma serve luce, su Firenze. Su perché quei bus siano stati fermati, e poi i manganelli, mentre le voci dentro quei video chiedevano solo di «andare a casa» come fanno dei figli, non dei delinquenti. La cronaca ha fatto il suo lavoro: ha verificato e raccontato. Adesso serve, diremmo urge, giustizia.

Perché ieri i tifosi bergamaschi hanno saputo soffocare la loro rabbia, che covava da quattro giorni. Ma questa rabbia resterà nelle memorie, e la potrà spegnere soltanto la giustizia, nelle sedi in cui la celebra lo Stato di diritto, quello che con le leggi, e con chi le fa rispettare, regola la nostra vita tutti i giorni. Sempre e ovunque. Anche a mille e rotti metri dal casello di Firenze Sud, in una notte di Coppa.

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