La riforma per il Senato, si poteva osare di più

Un po’ sottotraccia prosegue il cammino delle riforme costituzionali, dopo il referendum che ha confermato la riduzione del numero dei parlamentari. Questa volta il Parlamento ha approvato una riforma puntuale e in sé limitata, relativa all’art. 58 della Costituzione, modificando l’elettorato attivo (e cioè il diritto di voto dei cittadini) del Senato, portandolo dai 25 ai 18 anni di età. L’elettorato passivo - e cioè la possibilità di essere eletti - è però rimasto invariato (a 40 anni), sicché il Senato si configura ancora - almeno per ora e idealmente - come una seconda Camera di riflessione, in virtù di una composizione che per età dovrebbe offrire un surplus di «saggezza».

Quanto lo sia stata davvero è meglio non indagare, ma, in ogni caso, il bicameralismo assicura duplicità di letture e di discussioni e dunque la possibilità di introdurre correzioni in corsa, posto che il dibattito pubblico si accende e si allerta, normalmente, solo quando almeno una Camera ha approvato una proposta di legge. La riforma costituzionale in esame è stata approvata dal Parlamento con maggioranze inferiori ai 2/3, sicché si apre la strada di una possibile – ma non probabile - richiesta (da parte di 500.000 cittadini o di 5 Consigli regionali o di 1/5 dei membri di una Camera) di un referendum costituzionale che confermi o bocci la revisione. Non vi sarebbe molto da discutere su questa riforma che, assai puntuale, pare anche ragionevole, eguagliando l’elettorato attivo per le due Camere. L’obiettivo, non sottaciuto, di questo pareggiamento del bacino degli elettori è anche quello di rendere meno improbabile la formazione di maggioranze diverse alla Camera dei deputati e al Senato e dunque, in qualche misura, di puntellare la stabilità dei governi.

E tuttavia, al di là di questa prima impressione di riforma condivisibile e anzi pacifica, si disvela, per l’ennesima volta, la mancanza da parte dei rappresentanti in Parlamento di uno scatto di coraggio e di apertura al reale problema di scollamento tra elettori ed eletti. Riguardata meglio, la riforma imbocca la direzione sbagliata e cioè quella della riduzione della differenziazione delle due Camere. Il problema del nostro bicameralismo è profondo e di senso: due Camere che sono espressione di un medesimo principio rappresentativo (cittadini eletti su base partitica), per di più fortemente svuotato di senso - e cioè della capacità di dare veste istituzionale alla partecipazione dei cittadini - a causa dello scollamento di partiti che hanno reciso l’istmo sottile che li teneva collegati al territorio e che ormai fluttuano nel vuoto, alla ricerca di rendite di potere che leader precari possano distribuire ai fedelissimi. Se si vuole rilanciare - come si dovrebbe - il Parlamento e la sua capacità di mediazione, bisogna ridargli senso e forza di rispecchiamento della vitalità sociale. Insomma, altro che la banalità di questa riforma. C’è tutto un mondo sociale che sfugge completamente - o quasi - alla mediazione partitica. A cominciare dal Terzo settore e dal civismo attivo a livello locale. Un po’ di fantasia e lo sforzo di sintonizzazione con il sentire popolare avrebbero consigliato di osare di più, differenziando veramente le due Camere, facendo della seconda non un doppione sempre più doppione della prima, ma un organo di rispecchiamento popolare meno fagocitabile dai partiti. La costituzionalizzazione della Conferenza Stato-Regioni ed enti locali come organo di cooperazione e confronto istituzionale con le identità dei territori poteva essere una soluzione migliore di quella adottata. Insomma i partiti non vogliono mollare il monopolio della rappresentanza, ma al tempo stesso non la sanno interpretare. Forza senza legittimità.

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