La sfida del lavoro
l’occasione per unire
un’Italia più povera

Per 3 italiani su 4, secondo un sondaggio Ipsos di Nando Pagnoncelli, il lavoro è la prima necessità. La domanda che cresce dal Paese è dunque una e una sola, ed è unificante. Al Sud l’82% degli intervistati ritiene il posto di lavoro il problema più urgente. Solo il 44% ritiene l’assistenza prioritaria. Emerge la consapevolezza che solo con il rilancio dell’economia sia possibile evitare la lacerazione del tessuto nazionale. La Lega, che rappresenta i ceti produttivi del Nord, ha i suoi problemi a dover gestire il malcontento tra le sue fila. Il reddito di cittadinanza sa troppo di assistenzialismo per renderlo credibile come strumento di rilancio dell’economia. E del resto la platea degli evasori in Italia è così estesa da risultare una «costituency», cioè un blocco elettorale di cui tenere conto.

Questo spiega il puntuale condono fiscale, che sarà pure di sopravvivenza per molte imprese con l’acqua alla gola, ma di certo è distruttivo ai fini della perseveranza civica e quindi del rispetto delle regole. Come si può pensare di crescere se sul lavoro pesa un cuneo fiscale al 70%? È la domanda del mondo imprenditoriale. Ed è forse lì che bisogna intervenire. La provincia di Brescia è terza in Europa per specializzazione industriale e alla riunione degli imprenditori di novembre non erano presenti esponenti di governo.

È ormai chiaro che l’attività economica segna il passo, nell’ultimo trimestre dell’anno il Pil si è contratto dello 0,1%, sia l’Ufficio parlamentare di bilancio sia l’Istat confermano che il rallentamento congiunturale si è accentuato. Quel che è cambiato è il rischio povertà di settori della popolazione che sino a ieri si sentivano protetti. E non si può pensare di sanare la ferita come si è sempre fatto nel passato. Ci vuole una politica industriale. La percezione è che si voglia privilegiare coloro che sono ai margini dell’attività produttiva a spese dell’industria cioè di quella parte del Paese che genera oltre 450 miliardi di export su un totale di 550 miliardi di euro. La nostra vera ed unica ancora di salvezza. Il sistema industriale italiano deve indirizzarsi su attività da alto valore aggiunto, ad alta intensità di produttività di investimenti.

Le infrastrutture e l’energia sono determinanti ma vengono condizionate dalla mano pubblica. Affrontare la scansione temporale per rendere certo il percorso burocratico e liberarlo dai cavilli e dai ritardi è un impegno dello Stato di cui il governo deve farsi carico. Aprirsi ai mercati è decisivo. Il vero interesse nazionale è il sostegno ai ceti produttivi, quel partito del Pil che non ha steccati ideologici ed è ancora maggioritario nel Paese.

L’Ocse, l’organizzazione che riunisce le economie più avanzate, rende noto che la pressione fiscale in Italia è al 42,4%, tra le più alte. Ma la cosa più interessante è che il divario tra il carico fiscale del 1965 e quello del 2017 è di ben 17,7 punti. La media Ocse dice che nello stesso periodo l’aumento è stato del 9,3%. L’Italia è fuori fase e non perché siano migliorati o allargati i servizi pubblici, come tutti sanno, ma perché si è voluto dare sostegno alla spesa improduttiva.

Il guaio è che anche con questa manovra non sembra cambiare lo spartito. Secondo l’Ufficio studi del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti nel triennio 2019-2021 le imposte aumenteranno di 12,9 miliardi. Chi avrà mai il coraggio di dire agli italiani che non si può redistribuire il reddito se non cresce la produttività? In Germania solo ora, a tredici anni dalle riforme del governo Schröder, hanno iniziato a farlo.

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