La sfida della cultura nella città di tutti

IL COMMENTO. Come in una matrioska, la «Settimana della cultura» si trova ospitata all’interno dell’anno della cultura. Si tratta di un evento estremamente concentrato, dal 15 al 23 aprile – settimana lunga dunque – che intensifica, con appuntamenti diffusi su tutto il territorio bergamasco, le occasioni di incontro con le espressioni culturali delle comunità cristiane della diocesi di Bergamo.

La «Settimana della cultura» vuole essere un momento di Chiesa nel senso più ampio dei termini: il titolo che confedera i numerosi eventi che costellano la manifestazione è «Nella Città di Tutti». La sovrabbondanza di maiuscole in questo titolo è un’enfasi che sottolinea tre intuizioni. La prima è «Nella». C’è un desiderio di stare e di rimanere. La cultura frequentata dalla «Settimana» è quella che nasce e vive dentro le comunità cristiane ordinarie: c’è una ricchezza di espressioni, forme, opere e proposte che attestano la vitalità della fede nel territorio diocesano bergamasco. Una scintilla che dice di una storia credente, una miniera di significati e di umanità non esaurita, in cui una cultura nasce e cresce, continuamente come da secoli, all’ombra di campanili, parrocchie e luoghi che ospitano lo scorrere ordinario della vita di tutti i giorni.

Un cristianesimo forse a volte un po’ appannato, ma che non smette di colloquiare con i simboli e le forme dentro cui gli uomini e le donne elaborano il senso del vivere su questa terra. La «Settimana della cultura» ha solo voluto facilitare e raccogliere quanto già sta dentro la vita cristiana bergamasca: ha dato fiducia al patrimonio culturale delle comunità cristiane della diocesi, incentivando il loro protagonismo e la loro propositività. Ne è scaturito un calendario fitto, che raccoglie oltre 200 eventi: alcuni altisonanti, altri più modesti. Ma cultura e umiltà hanno una radice comune: etimologicamente, «cultura» ha a che fare con ciò che si «coltiva» e «umiltà» con la miglior terra fertile, l’«humus». C’è una parentela stretta tra il sapere e il quotidiano – che non è il banale. Senza questo legame, il bello scivola velocemente nell’estetismo di maniera, perfetto, ma lontano da ciò che serve per vivere. La cultura della «Settimana» mette in risalto questo tratto umile ma non umiliato del bello. E mentre le comunità cristiane mettono in mostra il racconto di un passato, accendono nel presente uno sforzo di tradizione. Il passato non arriva mai illeso al futuro: non è un pacco che si consegna, è una vita brulicante che si trasforma. Cultura come vita, non come merce o prodotto.

Il secondo maiuscolo, «Città», dice bene di questa caratteristica. Le comunità cristiane vivono dentro una città, dentro una rete di relazioni, di commerci, di scambi, di incroci, di luoghi e di tempi «profani». Il «sacro» cristiano non è una separazione dallo spazio pubblico, un sistema di recinzioni che isola le cose di Chiesa da quelle di tutti i giorni. L’habitat cristiano è la città. Gesù è di Nazareth: la storia divina non esiste se non situata dentro i legami imperfetti delle faccende degli uomini. Ciò significa che c’è costantemente un incontro da allestire e ritessere più che una purezza da preservare: l’arroccamento ha più a che fare con le strategie della paura che con le dinamiche evangeliche. Il Vangelo è da sempre un incontro esposto: non è il codice di comportamento di una setta, è l’invito a stare dentro uno spazio e un tempo, come incontro. C’è dunque un legame che la cultura delle comunità cristiane testimonia: ciò che viene offerto durante questa «Settimana» racconta un dono ricevuto, ma esprime ancor più il compito e il desiderio di continuare, dentro la città, a costruire alleanze, a tessere incontri, ad aprire alternative. Non una coabitazione, ma un contributo, gomito a gomito, nella costruzione della casa comune. Una presenza cristiana anche scomoda e impertinente, se è per fedeltà creativa al suo Maestro. Da qui scaturisce l’idea del bello come speranza.

Infine, il «di Tutti». È corale e plurale lo sforzo del camminare insieme. È una dimostrazione della Pentecoste continuamente in atto nella Chiesa, lo sforzo di parlare lingue diverse che, miracolosamente, si capiscono. C’è una pluralità da preservare, una diversità che fa bene, contro l’idea che l’omologazione neutra sia la risposta al problema suscitato dall’altro. La cultura della fede accade sempre dentro «culture» molto diverse e originali, che la tengono in vita perché la ricevono e la rielaborano in modo differente, da Schilpario fino a Romano di Lombardia. È questa scuola di differenza – non di differenze – e di alterità che va in scena questa settimana: il contributo multiforme e plurale della cultura cristiana è la sua capacità di non disperdere l’originalità del singolo nello sforzo di dare forma all’insieme.

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