La strage in Libia
Il porto sicuro

Il conflitto in Libia si sta incanagliendo. Ne è prova la strage avvenuta nella notte fra martedì e ieri, quando l’aviazione del generale Khalifa Haftar ha colpito per errore un centro per migranti adiacente alla base militare di Dhaman: almeno una sessantina di vittime e 130 feriti, in un primo bilancio. La base è tra i depositi in cui le milizie di Misurata e quelle fedeli al governo del presidente Fayez al-Serraj hanno concentrato le loro riserve di munizioni e di veicoli utilizzati per la difesa di Tripoli, sotto attacco dal 4 aprile dalle milizie del generale della Cirenaica. In tre mesi il conflitto ha provocato almeno 700 morti e spaccato ulteriormente un Paese che è anche un puzzle di milizie e tribù. A innescare l’escalation la riconquista nei giorni scorsi da parte dei combattenti schierati con Serraj della cittadina di Gharyan, pochi chilometri a Sud di Tripoli, strategica per la presa della capitale sede del governo riconosciuto dall’Onu, e per questo scelta da Haftar come base per il suo quartier generale.

La strage dei migranti è stata condannata dalle Nazioni Unite, che l’hanno definita «crimine di guerra». Medici senza frontiere, testimone oculare di ciò che accade in Libia perché presente con i suoi ospedali e ambulatori, sostiene che l’eccidio poteva essere evitato: «Al momento dell’attacco - spiega Msf - oltre 600 uomini, donne e bambini vulnerabili erano intrappolati nel centro. I nostri team lo hanno visitato proprio martedì e hanno visto 126 persone nella cella che è stata colpita».

Quella che si combatte in Libia è una guerra per procura con molti interessi in gioco. Con il presidente Serraj sono schierati Turchia, Qatar, Onu e in teoria Italia. Con Haftar, Arabia Saudita, Emirati arabi uniti, Egitto, Russia e la sempre più attiva Francia. Nei giorni scorsi Serraj ha raggiunto Milano per incontrare il vicepremier e ministro dell’Interno Matteo Salvini, uno sgarbo istituzionale ai danni del primo ministro Giuseppe Conte e del ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi. Ma Serraj sa qual è l’uomo forte del nostro governo e a lui ha chiesto un sostegno più netto dell’Italia, dopo tre mesi di traccheggiamenti, con l’esecutivo gialloverde che si gioca la doppia opzione: non inimicarsi il governo legittimo, che abbiamo contribuito a far nascere col sostegno dell’Onu, e allo stesso tempo non scontrarsi con Haftar, in attesa di vedere chi vince il tragico braccio di ferro. Serraj ha una carta buona per trattare, la solita utilizzata dai leader libici: l’immigrazione.

Sarebbe il momento di finirla con la favoletta autoassolutoria della Libia porto sicuro: se non ci fossero di mezzo tragedie, sarebbe una barzelletta. È stata istituita la Sar (zona di ricerca e soccorso in mare) libica ma le motovedette di Tripoli intervengono a singhiozzo e una parte è stata riciclata in navi da guerra. L’Italia ha arretrato la sua presenza (Guardia costiera, Marina militare e Guardia di finanza) proprio dopo la creazione della nuova Sar sotto tutela del governo Serraj. La missione Sophia dell’Unione Europea è ormai presente solo con aerei di monitoraggio. Le navi delle ong sono invece nel mirino del nostro governo. Ma non personaggi come il comandante Bija, alla guida di una Guardia costiera libica grazie ai fondi elargiti da Bruxelles e da Roma, ma anche di un traffico di migranti e di contrabbando, crimini per i quali è indagato dalla Corte penale internazionale dell’Aja. Gli immigrati in Libia muoiono sotto i bombardamenti ma anche in mare. Non stanno diminuendo le vittime nel Mediterraneo, stanno diminuendo i testimoni come abbiamo visto. «Nel 2019 una persona ogni tre ha perso la vita nel tentativo di arrivare in Europa lungo la rotta della Libia» denuncia il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite.

Solo nei primi 4 mesi del 2019 sono morte 422 persone. In media si tratta della percentuale di vittime più elevata sul totale delle partenze dal 2014. Una verità oscurata dall’oscena definizione di «porto sicuro».

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