La vendetta di Letta sposta il Pd a sinistra

Enrico Letta aveva una difficile missione e l’ha svolta come ha potuto: scontentando molti e facendosi tanti nemici ma anche prendendosi non poche soddisfazioni. La principale delle quali è stata quella di depurare le liste elettorali del Pd da parecchi «uscenti» macchiatisi a suo tempo di amicizia con il detestatissimo Matteo Renzi (che da segretario del Pd affondò il governo Letta, giustappunto, e si sedette lui sulla poltrona di Enrico «sta-sereno»).

Non è difficile immaginare che il nipote di Gianni Letta e l’allievo di Romano Prodi abbia a lungo meditato vendetta, che è arrivata in due tempi. Primo, ha chiuso la porta in faccia al nemico Matteo che cercava alleanze elettorali per superare la soglia di sbarramento del 3% (Italia Viva è al di sotto), e poi ripulendo le liste degli ex renziani che a suo tempo non seguirono il leader nell’avventura del nuovo partito. Qualcuno è stato cancellato, qualche altro messo nelle condizioni o di non essere eletto o di rinunciare in partenza. È il caso quest’ultimo di Alessia Morani, a suo tempo renzianissima poi vivace sottosegretaria del governo Draghi, che ha detto: «Grazie dell’offerta ma mi tiro indietro» sapendo di non avere speranze di tornare a Montecitorio. A rischio o escluse sono le candidature dell’ex portavoce di Renzi e Gentiloni Filippo Sensi, di Emanuele Fiano, del costituzionalista Stefano Ceccanti, di Enzo Amendola che ha contrattato il Pnrr a Bruxelles, di Maria de Giorgi, e soprattutto di Luca Lotti, già braccio destro del senatore fiorentino, che ha accusato Letta di averlo cacciato «con scuse vigliacche».

L’ex ministro Cesare Damiano, della sinistra ex diessina, a suo tempo epurato da Renzi, la spiega così: «Entrambi i segretari hanno usato lo stesso metodo, quello di privilegiare gli amici e cacciare gli altri». «Ma in più in Letta c’è il rancore personale» è stato il commento di Renzi (che comunque è uno che non dimentica uno sgarbo neanche se glielo si chiede in ginocchio).

C’è da dire che Letta ha avuto un compito più difficile a causa della riforma iper-populista del taglio del numero dei deputati e dei senatori voluta dai grillini (e votata dal Pd in cambio di una riforma elettorale mai arrivata). Meno posti, meno candidati. Per cui veterane come Valeria Fedeli e giovani come Giuditta Pini, entrambe della sinistra, sono state escluse mentre la pasionaria dei diritti civili Monica Cirinnà prima ha rifiutato un collegio «perdente» - come se l’elezione dovesse essere assicurata a tavolino - poi, travolta dalle critiche e dagli sberleffi contro la «sinistra dei salotti» ci ha ripensato e ha accettato di correre in gara, sia pure prendendosela con la «gestione pessima delle candidature» da parte di Letta.

C’è un elemento politico al di là di questi frammenti di debolezza umana e di inevitabili lotte. E cioè che a prima vista, le liste di Letta spostano ulteriormente il Pd verso sinistra facendolo assomigliare sempre di più al vecchio Pds, la «Ditta» bersaniana per intenderci, dove conta moltissimo la frazione «progressista» del vicesegretario Provenzano e degli alleati Fratoianni (collegio sicuro a Pisa al posto di Ceccanti) e Speranza. Curioso che avvenga sotto la segreteria di un ex democristiano come Letta. Ma se così fosse, aprirebbe nuovi spazi al «centro» moderato, riformista e draghiano di Calenda e Renzi, pronti ad accogliere i voti di tutti gli scontenti del Pd. Da questo punto di vista a poco servirebbe la candidatura di Carlo Cottarelli a Milano o di Pier Ferdinando Casini a Bologna.

In attesa di commentare gli esiti delle «parlamentarie» del M5S, da registrare il video malandrino messo in rete da «la Repubblica» in cui si vede una giovane Giorgia Meloni dire che Mussolini è stato il più bravo statista e che tutto quello che ha fatto lo ha fatto per l’Italia, ecc… Si attendono rettifiche da parte dell’interessata.

© RIPRODUZIONE RISERVATA