La voglia di Europa sale
Dall’Est i paletti

Integrazione tra Stati e superamento dei vecchi confini. Questi sono due dei fenomeni, collegati con la globalizzazione, che neanche la pandemia è riuscita a fermare. Negli ultimi mesi abbiamo osservato: in Asia-Pacifico, a metà novembre, la firma della partnership regionale (Rcep) fra 15 Paesi; in Africa, dal primo gennaio, l’entrata in vigore dell’area di libero commercio (Afcfta) fra 36 Stati. Unico fenomeno opposto è stato la Brexit, che nell’ottica degli ultraconservatori ha in grembo, comunque, l’idea di creare una zona speciale anglo-americana.

Nel Vecchio continente, però, non tutti la pensano come Londra. Anzi. Chi è rimasto al di fuori dell’Unione europea si guarda attorno per non restare escluso da questa fase della globalizzazione. Nei Balcani si sentono snobbati: sono stanchi di aspettare che Bruxelles offra loro la possibilità di diventare membri Ue dopo aver superato tutte o quasi le varie fasi di pre-adesione. Addirittura ataviche inimicizie vengono ora messe da parte in nome di una futura mini-Schengen regionale. La cosa importante, puntualizzano alcuni Paesi, è che tale area non sia a conduzione serba. Serbia, Albania e Macedonia del Nord sono le nazioni che stanno premendo sull’acceleratore per la nascita di questo mercato comune. «Non vogliamo una nuova Jugoslavia», mettono, però, i paletti i bosniaci che hanno impresso indelebile nella memoria il ricordo degli orrori degli anni Novanta.

«Libertà di movimento delle persone, delle merci, dei servizi e dei capitali» sono gli obiettivi da raggiungere nel lungo periodo dalla mini-Schengen balcanica in gestazione. Sono soprattutto i confini e le tasse doganali a rendere complicati i commerci. Troppe ore i camionisti, ad esempio, perdono in fila alle frontiere. Il danno è evidente: le merci costano di più e sono meno concorrenziali. Diverso è il discorso per Ucraina, Moldova e Georgia, repubbliche ex sovietiche, facenti parte da oltre un decennio del programma di partnership orientale Ue, che comprendeva anche Armenia, Azerbaigian e Bielorussia, persesi per strada. Anche questi primi Stati sfoggiano le bandiere blu con le stelle dei Ventisette ad ogni evento. Ragioni geostrategiche indurrebbero a velocizzare l’adesione, ma il rischio per Bruxelles di restare impelagata in situazioni conflittuali con la Russia induce ad andare con i piedi di piombo. Prima o poi, però, sarà necessario assumere delle decisioni. Il primo problema è quanto ancora si potrà allargare l’Unione europea? Il secondo: che cosa diventerà l’Ue? Si procederà verso la creazione di un’unione politica o resterà un’area economica con forti basi giuridiche e democratiche? L’allargamento del 2004 ha avuto forti chiaroscuri.

Come dimostrano gli ultimi dissapori tra Bruxelles e Polonia-Ungheria, i comuni valori europei non sono da tutti condivisi appieno. Sensibilità e storie diverse non sempre convergono. Un Vecchio continente a più velocità è così, da tempo, realtà. In futuro il gruppo dei Paesi fondatori, con dentro anche gli altri di Eurolandia, pare destinato ad un abbraccio politico più stretto, diventando il «fulcro» del continente; gli altri membri Ue rimarranno, invece, al traino. I Balcani e le repubbliche ex sovietiche filo-occidentali, eventualmente stanchi di fare anticamera - del resto questi Paesi hanno già riformato (o stanno riformando) sistemi politici, economici, sociali e giuridici, rendendoli convergenti con quelli Ue -, plausibilmente creeranno aree compatibili e satelliti. Dei «Deal», come quello tra Regno Unito e Ue del dicembre 2020, saranno all’ordine del giorno.

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