Lacrime e dediche
Fragilità forte

Quel filofoso esistenzialista scambiato per allenatore, Vujadin Boskov, avrebbe motteggiato alla sua maniera: «Meglio piangere di gioia che piangere di dolore», sapendo bene quali lacrime piangono i suoi figliocci Gianluca Vialli e Roberto Mancini, abbracciati sul prato di Wembley ora che sono campioni d’Europa. Sono le stesse versate nel ’92 quando la Samp perse la finale di Coppa dei Campioni col Barcellona perdendo se stessa: Vialli già venduto alla Juve, Mancini già preda della nostalgia. Ma sono anche diverse, il segno di una metamorfosi, di un messaggio a se stessi e all’Italia.

Sono le lacrime di chi ha vinto dopo aver perso accettando di mostrare la bellezza della fragilità, dribblando il falso pudore, mettendo al centro un’amicizia che nel frattempo ha imbiancato il ciuffo del Mancio, ha lasciato al tempo i riccioli di Vialli, le scorribande in campo e in Riviera nelle notti degli anni ’80, quando i due gemelli erano la beat generation doriana, forti, belli, goliardicamente dannati. Se in quelle lacrime c’era davvero il ricordo della finale persa a Wembley, o la partita contro la malattia di Vialli, o il senso di un credito saldato col destino, lo sanno solo Mancini e Vialli ed è giusto così.

Ma quelle lacrime sono anche l’istantanea di un messaggio, come le stampelle esultanti di Spinazzola, voluto dai compagni in tribuna a Wembley anche se non può mettere la freccia in campo, o i bigliettini motivazionali di Sirigu, ufficialmente portiere di riserva di un mostro come Donnarumma, in realtà allenatore aggiunto dei cuori e delle teste. Il messaggio è che l’Italia di Mancini è una nazionale sentimentale, una sfida all’ossessione del politicamente scorretto, uno schiaffo al rischio della retorica, che ha vinto con l’amicizia, l’empatia, la sinergia, il gruppo. Parole spesso abusate nel mare dei luoghi comuni, ma diventate la pozione magica, la benzina reale di una squadra che ha messo l’io dei singoli in panchina e al centro il noi del collettivo.

Come l’Italia dell’82, forse più di quella del 2006. Con la qualità dei giocatori e del gioco, perché di soli buoni sentimenti non si vince, ma senza vergognarsi di mostrarsi per quello che è, un gruppo di ottimi giocatori senza fenomeni, con l’eccezione, forse, di Chiesa, il vero crac azzurro. Nelle lacrime di Vialli e Mancini c’è qualcosa del bacio di Zoff a Bearzot nella notte di Madrid ’82, l’ammissione umile che oltre la tattica, la tecnica, la ferocia agonistica, c’è un sentire comune che fa la differenza, che induce Mancini a circondarsi di amici tra i collaboratori, da Lombardo a Salsano, da Evani a Nuciari, che induce Chiellini a dedicare la vittoria ad Astori di fronte al presidente Mattarella, che mostra la felicità lunare di Pessina mentre taglia un pezzetto della rete della porta di Wembley come un ragazzino a un concerto rock.

È stata l’Italia dei bravi ragazzi che non hanno timore di mostrarlo ma è stata anche l’Italia delle rivincite contro se stessi e contro i ricordi. Quelli di Mancini e Vialli calciatori azzurri erano stinti, immagini sfocate di occasioni perdute tra esultanze di rabbia e notti magiche lasciate ad altri: Mancio mai pervenuto, Vialli scomparso all’ombra di Schillaci nell’estate del ’90. Forse in quelle lacrime dei due ex gemelli del gol che si intrecciano, si mescolano, si sommano c’è anche il senso di una storia che si riapre e che regala un finale a sorpresa: le smorfie di allora, la delusione, il senso di vuoto scorrono via. Trenta e più anni dopo Wembley ha concesso una rinascita a «Viali y Mancini», l’Italia che sembrava aver tolto loro parecchio ha restituito il passato e ora è il momento della pace, bagnata di lacrime. Per il futuro c’è tempo.

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