L’amore forte
che vince la morte

La morte accade in un giorno e in un’ora precisi. Ma la sua ombra ci accompagna lungo tutta l’esistenza. Non soltanto quando celebriamo il lutto delle persone care, ma anche quando facciamo esperienza del nostro limite e dell’irreversibilità delle nostre scelte, non solo di quelle subite. La morte anticipa e compie la verità dell’umano. Oggi scopriamo che vale anche per la verità di Dio. Sotto la croce di Gesù molti fuggono. C’è da chiedersi come possa considerarsi amico chi non resiste di fronte allo strazio.

Però c’è da capire che, quando il gioco si fa duro, si punti a mettere al riparo sé stessi, per una sorta di legittima difesa. È desolante la solitudine alla quale i discepoli abbandonano il Maestro. Anche Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, dopo avergli chiesto un posto privilegiato nel giorno dei pieni poteri, ora se la squagliano insieme a quasi tutti gli altri, nella convinzione che, quando si affaccia la morte, non ci sia più nulla da sperare.

Altri si fanno beffe e imprecano. C’era da aspettarselo, perché quando Gesù aveva compiuto prodigi e raccontato le parabole del Regno aveva lanciato un invito che aveva il sapore di una sfida: l’invito a riconoscere il profilo umile della potenza di Dio, efficace nel guarire le storie ferite e generoso nell’accogliere chi offriva almeno uno spiraglio per cambiare vita. È venuta l’ora della resa dei conti e molti pregustano la vendetta nei confronti di colui che aveva salvato tanti, ma rimaneva impotente quando si trattava di salvare sé stesso. La croce non è forse lo spettacolo impietoso delle promesse disilluse? Lo scherno è di casa in chi non si lascia sfiorare dal dubbio che la potenza possa dimostrarsi vera nel salvare gli altri anche a costo della propria vita. Lo può intuire soltanto chi ama, perché l’amore porta a dimenticarsi di sé per far crescere la vita di altri.

Infine, ci sono alcune donne. Non fanno rumore. Rinunciano persino allo strepito dell’urlo di dolore. Nella compostezza affranta, la loro presenza è il segno eloquente di un grembo che non si è mai chiuso: sono pronte ad ospitare l’Amato anche quando la sua vita è spezzata. Potenza di un affetto talmente puro che vuol prendersi cura anche quando tutto è perduto.

Nella scenografia della morte di Gesù c’è un dettaglio che custodisce una rivelazione formidabile. Gli evangelisti Marco, Matteo e Luca riferiscono che il velo del tempio si squarcia. Non un tendaggio qualsiasi, ma proprio quello che custodisce il luogo solenne dei sacrifici per espiare i peccati del popolo. L’immagine del velo lacerato è efficace nell’indicare una sovversione nel compimento. Il sangue si paga con il sangue e l’ingiustizia invoca riparazione, ma nell’offerta della vita del Figlio la logica sacrificale viene liberata, una volta per tutte, da ogni ambiguità: se Dio impegna sé stesso nella costosa lotta contro il peccato, abbiamo libero accesso alla grazia, come si legge nella lettera agli Ebrei (10,19-23). Il velo squarciato è figura del corpo sbrecciato di Gesù, affinché si riversi lo Spirito che guarisce e ricrea, nel segno di un’alleanza indistruttibile. Destinatario è il mondo, la storia intera dell’umanità, perché il Crocifisso elimina in sé stesso l’inimicizia (Efesini 2,16) di ogni matrice, specialmente etnica e religiosa.

«Se l’ordine del mondo è regolato dalla morte, forse val meglio per Dio che non si creda in lui e che si lotti con tutte le forze contro la morte, senza levare gli occhi verso il cielo dove lui tace». Alla dignitosa rassegnazione di Camus fa da contraltare l’esortazione dell’evangelista Giovanni a volgere lo sguardo a Colui che è stato trafitto. Non si tratta di una proposta lugubre. È l’invito a riconoscere che Dio attraversa il mistero del male, fin nelle sue estreme conseguenze, pur di offrirci la sua amicizia. Solo l’amore può spezzare il pungiglione della morte. Ma l’amore non può nulla di fronte a chi lo rifiuta, perché, se si imponesse, tradirebbe sé stesso. Di più non è possibile. Neanche per Dio.

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