L’armistizio sui dazi
una vittoria di Trump

Il presidente Trump e il vice primo ministro cinese Liu He hanno chiuso la fase uno dell’accordo commerciale. Dopo 18 mesi di guerra dei dazi il governo americano e la Cina di Xi Jinping hanno firmato l’armistizio. Pechino si vincola ad acquistare più prodotti americani per altri 200 miliardi nei prossimi due anni mentre Washington si impegna a non imporre nuovi tributi sui beni made in China. Quelli vecchi resteranno. Wall Street festeggia, sia il Dow-Jones che S&P-500 Index sono andati al rialzo. Gli operatori finanziari americani avranno un accesso meno regolato al mercato cinese, il che consolida il principio che anche nelle grandi controversie ideologiche alla fine il soldo mette tutti d’accordo. Perché dunque tutto questo entusiasmo?

Il timore che il futuro non arrida porta a non consumare e a non investire. Nulla teme di più l’economia che l’instabilità. L’accordo certifica che l’incertezza adesso è finita. Per questa annata elettorale Trump ha ottenuto dall’accordo il risalto mediatico che si proponeva e quindi non romperà. Politicamente è un successo: ha costretto l’avversario a venire a patti ed a accettare i dazi. Il presidente americano dimostra che al tavolo delle trattative non si va disarmati.

Nel suo libro «The art of the deal», ovvero come giungere ad un buon affare, la posizione dominante sta nel disporre di ciò che per il contraente è indispensabile. I cinesi non possono fare a meno dell’esportazioni negli Usa. I dazi di Trump hanno inciso per il 12,5% sull’export cinese verso l’America. In un reportage della televisione tedesca emerge come intere zone della Cina votate alla produzione per l’export si siano trovate, a causa dei dazi di Trump, di colpo senza lavoro e con i disoccupati per strada.

Fare un favore al presidente americano in piena campagna elettorale col rischio di ritrovarselo come interlocutore di nuovo fra un anno non è negli auspici di Pechino eppure Xi Jinping ha ceduto. Non aveva alternative. Certo se ci domandiamo perché è iniziata la guerra commerciale e aspettiamo una risposta dall’accordo rimaniamo delusi. Sono 94 pagine senza un impegno definito a non cessare lo spionaggio industriale ovvero l’utilizzo di brevetti copiati in occidente. È interesse strategico della Cina passare da grande consumatore di proprietà intellettuale a grande creatore di invenzioni e di nuove applicazioni tecnologiche ma nel trattato non vi sono sanzioni per chi viola queste pie intenzioni.

Non va dimenticato che nel 2001 la Cina ha potuto entrare sui mercati occidentali perché riconosciuta come «economia di mercato». E questo anche se le sue imprese non rispettavano gli obblighi dei suoi concorrenti, ovvero rispetto ambientale, tutela dei lavoratori, tassazione e al contrario venivano aiutate dallo Stato a stare sul mercato con sovvenzioni. Un errore che è costato caro alla comunità occidentale in termini di posti lavoro, al punto che mentre in Cina si costituiva una nuova classe di benestanti nell’ordine di ottocento milioni di persone in Occidente il ceto medio veniva distrutto. La globalizzazione certo non si poteva fermare ma si poteva governare e regolare. Non è stato fatto. Al malessere che ne è derivato deve Donald Trump la sua elezione alla Casa Bianca. A questo il presidente americano voleva porre rimedio con la guerra commerciale.

I cinesi hanno recuperato sugli altri mercati e aumentato dello 0,5% l’export ma l’accordo dimostra che senza il mercato americano nel Paese asiatico, ultimo baluardo del comunismo, può crearsi scontento. Altri ottocento milioni aspettano di fare il salto dei loro più fortunati concittadini. Se si blocca il flusso di dollari si faranno sentire.

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