L’eredità di Mattarella: il metodo inclusivo e la fiducia nei giovani

Un discorso svolto in piedi come l’anno scorso, metafora di un Paese che sa rialzarsi. L’intervento di fine anno di Sergio Mattarella è il congedo di un presidente dal Colle, dove non s’è sentito affatto solo, tanto più che – aggiungiamo noi – ha conquistato l’apprezzamento e l’affetto degli italiani. Lascia in eredità un modello di coesione indispensabile per superare la più grave crisi dal dopoguerra: Covid e ricostruzione economica. Uno stile che, durante il settennato, ha consentito di tenere unita la società fra l’aggressione dell’imprevedibile e le turbolenze della politica (le dimissioni di un governo e la nascita di atri 4, più tutto il resto), esprimendo anche la vocazione di una comunità che intende essere parte di cambiamenti sempre più accelerati.

Il presidente è entrato nelle case della gente comune, parlando da italiano agli italiani, a fianco delle sofferenze collettive. Partendo da un ringraziamento a tutti per quello che si sta facendo e disegnando una prospettiva di fiducia, nonostante tutto: la condivisione del dolore di questi due anni nella cornice di quella unità istituzionale e morale, le due espressioni di ciò che ci tiene insieme. Un ringraziamento sincero a Papa Francesco «per l’amore che esprime all’Italia e all’Europa». Nessun problema dell’Italia reale è rimasto scoperto. A cominciare dalla pandemia, evidentemente, e da un’istantanea che ci tocca da vicino: le bare trasportate dai mezzi militari. La difesa dei vaccini, un’opportunità che sarebbe un’offesa sprecare. Dalla disperazione ci stiamo rialzando grazie alla scienza: «Non dobbiamo scoraggiarci. Si è fatto molto». I morti sul lavoro, l’occupazione, le disuguaglianze, il deficit demografico, il legame fra istituzioni e società che passa a livello territoriale. E soprattutto la risorsa dei giovani, questione che è stata un po’ il cuore del discorso. Da qui – richiamandosi alla commovente lettera di un professore morto nel recente crollo a Ravanusa – l’invito alle nuove generazioni a prendersi il loro futuro, «perché soltanto così lo donerete alla società».

Mattarella, il cui mandato scade il 3 febbraio, non ha fatto il benché minimo cenno alle elezioni presidenziali che dovrebbero cominciare verso fine gennaio. Assodata da tempo la sua indisponibilità al bis (l’eccezione di Napolitano non può diventare una regola), forse c’era chi s’aspettava qualche riferimento al clima politico. Così non è stato, anche una sola parola sarebbe stata interpretata come interferenza. L’ex giudice della Corte Costituzionale chiamato al Quirinale s’è confermato per quello che è: una personalità che incarna correttamente i principi e i valori della democrazia parlamentare, specie in tempi di improprie suggestioni semipresidenzialiste.

Quel che avverrà nei prossimi giorni appartiene alla sovranità del Parlamento, non ad altri. In questi 7 anni non è stato il «notaio» ma il garante dell’unità nazionale e della tenuta più complessiva del sistema politico-istituzionale, decidendo quando intervenire (la nomina di Draghi a premier ha rappresentato un punto di svolta, senza dimenticare altre decisioni) o quando lasciar fare ai partiti, sulla base di quei poteri quirinalizi «a fisarmonica» che si dilatano o rientrano a seconda delle circostanze politiche. Un presidente con la Costituzione in mano, quel «fondamento, saldo e vigoroso, dell’unità nazionale», come ha sottolineato nel discorso di venerdì. Le radici e gli orizzonti di un comune destino, in cui ciascuno deve fare la propria parte: le parole finali del suo congedo, in continuità con quelle («Tutti devono prendersi cura della Repubblica») del primo messaggio di fine anno, nel 2015.

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