L’Europa allargata, c’è un prezzo da pagare

Bella cosa l’allargamento del 2004: dieci nuovi Paesi membri e l’Unione europea che in poche settimane spalanca a Est una finestra (Ungheria, Polonia, Slovacchia, Lettonia, Estonia, Lituania, Repubblica Ceca e Slovenia) che sino a pochissimi anni prima sembrava inimmaginabile. Ma quanto è difficile, adesso, gestire differenze che derivano dalla tattica politica ma sono anche del Dna delle diverse nazioni? E come superare la paralisi decisionale che nell’Unione così spesso deriva da quelle differenze, per esempio su un tema doloroso e decisivo come quello delle migrazioni? La risposta è tutt’altro che facile e la standing ovation con cui al Consiglio europeo è stata salutata Angela Merkel, che era alla 107ª e ultima apparizione in quel consesso, aveva già il sapore del rimpianto per una leader che tante volte aveva saputo evitare rotture troppo clamorose.

Un primo progresso, secondo noi, sarebbe riconoscere che tali differenze esistono e hanno pure un nome: interesse nazionale. Quando aderirono all’Unione, la Polonia, i Baltici, l’Ungheria e gli altri di certo firmarono un atto di fede nella democrazia, nello stato di diritto e così via. Ma (soprattutto?) pensarono che la Ue fosse il sistema migliore per difendersi dal passato sovietico e arrivare al benessere che già premiava Paesi come la Francia, la Germania o l’Italia.

In nessun caso, quindi, mostravano inclinazione ad annullarsi o a rinnegare la propria storia. Con gli anni, poi, sono successe altre due cose. La Ue ha mantenuto la promessa relativa al benessere ma sul tema della sicurezza si è fatta superare dagli Usa. I Paesi di quello che chiamavamo Est europeo sono così diventati più ricchi e più sfrontati rispetto ai Paesi fondatori della Ue. Quello che avviene nella Ue, quindi, non è il tanto esaltato scontro tra «europeisti» e «sovranisti» ma tra Paesi fondatori e nuovi arrivati, che poi sono quasi tutti a Est della Germania. Questa spaccatura Est-Ovest è in potenza assai insidiosa. C’è però un aspetto su cui lavorare. Questo: le battaglie sui valori sono spesso la bandiera che serve a coprire questioni meno nobili. La Polonia, per esempio, cioè il Paese sovranista del momento, non vuole sentir parlare di transizione ecologica perché il 70% della sua energia elettrica viene dal carbone. E detesta ogni forma di accordo energetico con la Russia (vedi il gasdotto russo-tedesco Nord Stream 2) perché ha a lungo accarezzato il sogno di diventare l’hub gasiero d’Europa. È solo malignità pensare che, a fronte di lucrose concessioni su questi fronti, potrebbe diventare in fretta meno sovranista e più attaccata, per esempio, all’indipendenza della magistratura? E vogliamo scommettere che le parole della Von der Leyen al Consiglio europeo (in sintesi: andiamo verso le rinnovabili ma intanto il nucleare va benissimo) hanno placato gli spiriti di Orban e dell’Ungheria, che dalla centrale di Paks, gestita in collaborazione con la Russia, ricava il 50% dell’energia prodotta nel Paese?

Prepariamoci ad anni di trattative anche sui centesimi, ecco tutto. E per il resto, usiamo meglio le parole. La Le Pen o la Meloni sono sovraniste. Un polacco sovranista (come un russo o un estone) è quasi sempre solo un polacco

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