L’impensabile
effetto domino

L’anno zero dell’epidemia al tempo dei social è uno di quegli eventi (non semplici fatti) che stabiliscono un prima e un dopo. All’indomani del trauma dell’11 Settembre si diceva che «nulla sarà come prima»: molta emozione, un pizzico di retorica, un pezzo di verità, tutti strumenti per un viaggio nell’inconscio collettivo. Afflitti dal coronavirus, torniamo così alla casella di partenza con il conforto dell’intramontabile Alessandro Manzoni?

Nell’età dell’incertezza il virus fa il mestiere di guastatore nella trincea della vita, e scava alla cieca come le talpe, accompagnato dalla presenza ingombrante del «cigno nero»: espressione che oggi riassume l’evento inatteso e spiazzante, lo spartiacque che fa la differenza, la mano invisibile che ti atterra quando meno te lo aspetti.

L’ignoto e il misterioso, in attesa di smascherarli dopo aver attribuito loro un nome, fanno paura perché imponderabili: una natura che sfugge al calcolo o ad una precisa valutazione. Una paura per così dire ugualitaria, in quanto l’avventura-disavventura del singolo si trasforma nell’esperienza di tutti, capace alla fine di risolversi in un sorprendente soccorso protettivo. La «zona rossa» è un luogo fisico, ma già comincia ad essere un abito mentale. L’emergenza diventa la normalità. Quel termine, emergenza, che in questi anni abbiamo appiccicato ad ogni anomalia svalutandolo, si riappropria della sua potenza, della sua autentica identità: circostanza eccezionale e di pericolo estremo da affrontare con tempestività e risolutezza. L’emergenza come ordinaria condizione esistenziale e in questo siamo un popolo di reduci. C’è sempre un prima.

Già negli anni ’70 s’era capito che – è il caso di dirlo – non potevamo lavarci le mani di quel che succedeva appena fuori casa. E così la quarta guerra arabo-israeliana insieme ai due choc petroliferi ci hanno lasciato a piedi, riorientando la psicologia collettiva e incidendo sugli stili di vita: le domeniche a piedi, il clima di austerità, austerity per i più raffinati, un tocco di sobrietà. Si diceva che era il canto del cigno dell’Occidente, l’ultimo e il più ammirato episodio di una carriera economica di successo, quella del capitalismo, in realtà si trattava dell’avvento del «cigno nero». Di emergenza in emergenza, chiusa la parabola del terrorismo italiano (spintosi fino all’«attacco al cuore dello Stato»), non abbiamo fatto in tempo a sederci sugli allori del crollo del Muro ed ecco i dividendi del nuovo ordine mondiale rivelare una dimensione disumana al posto della promessa dell’Eldorado, una volta archiviato il nemico storico: guerre di ogni genere (regionali, per procura, asimmetriche), crisi umanitarie, popoli in fuga. Abbiamo dato retta al pur buon Clinton («È l’economia, bellezza») e, dopo aver incassato i benefici della globalizzazione, ne paghiamo il costo più oscuro. Ne abbiamo viste di tutti i colori e l’impensabile, spogliatosi del suo essere in un «altrove», s’è unito a noi, con lo schianto della Grande Crisi degli anni scorsi.

L’Italia non s’è fatta mancare niente, spesso ha ballato sul Titanic, ma al dunque – per quanto le opinioni possano essere diverse – è riuscita a sfangarla, sia pure in extremis. Benché ammaccati, ci stavamo riprendendo, anche i più esagitati sembravano aver messo la testa a partito, ma la discesa negli inferi s’è rimessa in moto per l’effetto domino di un mondo circolare dove tutto si tiene. Nell’evo ipertecnologico e nella stagione dei robot, mentre ci sentivamo tutelati dal progresso senza soluzione di continuità, ecco l’impensabile e l’indicibile: fra la realtà del pipistrello e la metafora del «cigno nero», chi l’avrebbe mai detto?

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