Lo smart working
tra luci e ombre

Fra i processi di modernizzazione sociale resisi necessari dalla calamità pandemica, l’istituzionalizzazione dello smart working alla maggior parte delle categorie professionali, pubbliche e private, insieme alla «didattica a distanza» ha rappresentato il più repentino cambio di rotta nelle abitudini lavorative e, di riflesso, famigliari degli italiani. Già adottato con le dovute cautele e con esiti soddisfacenti in alcune aziende (a fine 2019 si stimava che circa 570.000 lavoratori avessero già fatto ricorso al lavoro da casa), durante il lockdown il cosiddetto «lavoro agile» ha consentito il proficuo e talvolta stupefacente proseguimento di molte attività e perseguimento di altrettanti risultati sfidanti. La tematica è regolamentata dalla legge n. 81 del 2017 che ha posto l’accento sulla flessibilità organizzativa e sull’utilizzo di strumentazioni che consentano di lavorare da remoto (come pc portatili, tablet e smartphone).

Quello che ci si chiede insistentemente oggi è se la prassi dello smark working possa e debba proseguire così massicciamente anche quando la minaccia virale sarà completamente superata, quale «modello incentivante» per la ripartenza dell’economia. Il tema è evidentemente sensibile e strategicamente prioritario perché, oltre che sui progetti di vita dei lavoratori e sui conti economici aziendali, avrà consistenti ripercussioni anche nel nostro modo di abitare lo spazio sul piano urbanistico, ambientale, ecologico e socioeconomico. Un sensibile aumento del lavoro presso il proprio domicilio può infatti determinare la necessità d’interventi sulle abitazioni per creare spazi idonei per l’attività operativa.

Può anche causare un sovradimensionamento di milioni di metri quadrati destinati agli uffici, con indubbie ripercussioni sul mercato immobiliare. Meno persone si spostano da casa al luogo di lavoro, e viceversa, significa anche minore intasamento di strade e mezzi pubblici e minore inquinamento. Lavorare a casa, però, significa anche consumare elettricità, tenere acceso tutto il giorno il riscaldamento in inverno o l’aria condizionata in estate e anche questo è da soppesare con attenzione. Evitare il viaggio di andata e ritorno verso l’ufficio, significa guadagnare mediamente una o due ore al giorno e, quindi, avere più tempo da dedicare a sé stessi e alla famiglia. Significa anche realizzare concreti risparmi per il lavoratore che evita i pasti fuori, la colazione, il caffè, l’aperitivo e tutto quanto rappresenti un costo extra.

Tuttavia, tutto ciò può determinare una sensibile riduzione dei consumi che può avere sensibili ripercussioni sul piano macroeconomico. Con lo smart working c’è la possibilità di organizzarsi in modo autonomo in merito al tempo e allo spazio per lo svolgimento del lavoro, con un migliore bilanciamento tra vita privata e lavorativa e una conseguente diminuzione dello stress da lavoro. C’è il rischio, d’altro canto, che si generi una ridotta capacità di trasferimento delle informazioni interaziendali e che si produca un vero e proprio isolamento sociale del lavoratore, con un’inedita mescolanza fra vita privata e attività lavorativa.

Non vanno poi trascurati alcuni potenziali ostacoli che l’utilizzo su larga scala dello smart working comporta. Quello delle infrastrutture, rappresentato dalla difficoltà per i lavoratori di molte zone del Paese di disporre di connessioni veloci da casa, e ciò sollecita investimenti. Vi è poi il nodo ciclico, proprio in questi giorni dibattuto con controverse opinioni da amministratori, imprenditori, politici, sindacalisti e sociologi, relativo alla produttività del lavoro da casa, che imporrebbe modelli gestionali affidabili, capaci di misurare efficacemente e inequivocabilmente le performance individuali per obiettivi. Insomma, di carne al fuoco c’è né tanta e di non facile gestione. Alla miglior politica, come sempre, l’onere e l’onore di guidarci per il meglio.

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