Mancano scelte
per l’industria

Un capolavoro di incompetenza e pavidità politica: non disinnescare la bomba ambientale e unire la bomba sociale». Così sintetizza il disastro Ilva di Taranto Marco Bentivogli della Cisl. Difficile dargli torto, dopo che il gruppo franco-indiano ArcelorMittal, come ha scritto il «Sole24ore», ha «restituito le chiavi» dell’impianto a un anno dall’arrivo. Forse i suoi azionisti ci giocano, ma è indubbio che le complicazioni burocratiche intorno alle acciaierie pugliesi sono da sempre una palude dove tanti sono andati a fondo.

Rischiano così di rimanere senza lavoro 10.700 operai, di cui 8.200 a Taranto, 20mila se si conta l’indotto. Ventimila famiglie sull’orlo del baratro. Un buco di 24 miliardi di euro di Pil. Già tra il 2013 e il 2017 a causa della crisi Ilva erano andati in fumo quasi 16 miliardi di euro. Senza calcolare l’aggravio di costi e di imprese che hanno bisogno di acciaio. Insomma: un disastro.

Ma il caso Ilva e la crisi del siderurgico non è l’unica falla del nostro tessuto produttivo: è solo l’ultima voce della litania che ci ha fatto perdere il comparto chimico, farmaceutico, informatico e che ci vede perdere pezzi in questi anni di decadenza. Il problema è che in Italia – il secondo produttore e consumatore di acciaio in Europa - manca da sempre una seria politica industriale, a differenza di quanto avviene in Francia e in Germania, gli altri due grandi Stati manifatturieri europei.

Un problema che riguarda soprattutto il nostro Mezzogiorno. Il Sud è già in recessione, continua a svuotarsi e rischia di trascinare il Nord. Dall’anno 2000, secondo l’ultimo rapporto Svimez, se ne sono andati due milioni di residenti, di cui un milione di giovani. Mentre il ministro degli Esteri va a Shangai a tentare di vendere il riso e il nostro prosecco ai cinesi (per carità, nobile missione), sulla via della seta si procede in senso contrario, da Pechino a Milano (con un aumento del 7,8 per cento delle esportazioni dei cinesi). Macron ha firmato 40 accordi bilaterali di imprese manifatturiere con la Cina. Basta un Airbus venduto ai cinesi per riequilibrare tutto il riso da risotto che esporteremo in Estremo Oriente.

Negli esecutivi di Giuseppe Conte qualcosa non va, sembrano quasi affetti da una sorta di morbo anti-industriale, forse per andare dietro a certe fobie ambiental-millenariste di Grillo e Casaleggio. L’ultima, confusa, manovra economica è quasi il riflesso di questa visione ideologica, che sembra essere stata introiettata anche dal Pd. Dove sono i progetti per le infrastrutture, per aprire nuovi cantieri? Negli ultimi mesi si è parlato solo di tasse e anche quel poco che era stato deciso per detassare il cuneo fiscale, che avrebbe favorito lavoratori e imprese, è stato rinviato. Si sono colpite le partite Iva, si sono messe gabelle sulle auto aziendali, dimenticando che in fondo sono parte del reddito della classe dirigente del Paese. Si sono inventati la «plastic tax» forse sull’onda dei «Fridays for future» di Greta Thunberg, visto che c’è pure l’aumento delle accise su carbone, gas naturale e gasolio usati dalle imprese per produrre energia elettrica. Ma non c’è stata una visione, un progetto, un piano di riconversione e rimodulazione per dare avvio a quella che Jeremy Rifkin chiama la rivoluzione della green economy. Si è fatto cassa e basta. Con tanti saluti alla fiorente industria del «packaging» emiliano, che concentra il 40 per cento della produzione europea. E ancora non sappiamo che ne sarà degli stabilimenti Fiat dopo la sovrapposizione degli stabilimenti francesi della nuova creatura Fca-Psa. Speriamo in bene. Ma è bene anche non limitarsi solo a sperare.

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