Marcire in carcere
Se questa è civiltà

La civiltà di un popolo non si misura solo dai suoi monumenti, dalle opere d’arte, dall’eredità di scrittori e da tradizioni virtuose, ma anche dal linguaggio. «Le parole fanno un effetto in bocca e un altro negli orecchi» diceva Alessandro Manzoni. In questa epoca incattivita una parte dell’opinione pubblica ricorre all’espressione «marcire in carcere», augurio rivolto a chi ha commesso reati contro la persona, ma non solo, in particolare se ledono la proprietà privata. Le parole hanno un significato e marcire rimanda alla decomposizione di un corpo.

È un’espressione tremenda, se la si prende alla lettera. Ne fanno uso anche rappresentanti istituzionali, come il vice premier e ministro dell’Interno Matteo Salvini. Il quale giustamente chiede che i magistrati non facciano politica, ma altrettanto giustamente dovrebbe astenersi dall’emettere sentenze, dal vestire i panni del giudice, tanto più ricorrendo a un tale gergo.

Chi commette un reato deve affrontare un processo ed eventualmente la detenzione. Ma molte carceri italiane sono discariche umane, abitate anche da malati psichiatrici e tossicodipendenti che dovrebbero essere curati altrove. Inoltre è tornato il problema del sovraffollamento: a fronte di una capienza di 50.700 posti, ci sono 60.500 detenuti. Un caso unico in Europa: in Italia calano i reati però aumentano i carcerati. Ma torneremo su questa contraddizione.

La prigione non è un luogo dove dimenticare i reclusi e uno Stato liberale deve garantire il beneficio effettivo dei diritti. La Costituzione dice che le pene «non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma ha detto recentemente che in questo momento storico «l’Italia e l’Occidente stanno dando messaggi piuttosto “manettari”. I diritti sono un valore per tutti o una concessione per chi se li merita? Ora va molto la seconda idea ma una democrazia deve salvaguardarli come valore». L’abolizione della prescrizione, la difesa sempre legittima, gli aumenti di pena danno il senso di un governo, il nostro, che ha dato una sterzata giustizialista in materia. Eppure non c’è un’emergenza criminalità. Lo dice la stessa relazione annuale del governo sulla sicurezza: nel 2017 i delitti sono scesi del 2,32% rispetto al 2016 e dell’8,3% nei primi nove mesi del 2018. Se in Europa al calare dei reati diminuisce pure il tasso di detenzione (meno 3,2% negli ultimi due anni), l’Italia è invece il Paese Ue in cui è aumentato di più (7,5%). Per gli esperti questa discrasia si spiega con il fatto di una diminuzione delle uscite corrispondente a un aumento delle pene, senza un parallelo aumento della gravità dei reati. Altra credenza da sfatare: non è vero che l’Italia è lassista con i criminali. Il 17% delle condanne va dai 10 ai 20 anni, la media europea è 11. Il 27% delle pene va dai 5 ai 10 anni: il 9% in più rispetto alla media dell’Unione. Inoltre gli stranieri in carcere sono diminuiti. Nel 2003 ogni cento stranieri regolarmente residenti in Italia, l’1,16% finiva in carcere, oggi è lo 0,36%, compresi gli irregolari, considerazione che avrebbe dovuto far aumentare la stima. Questi sono i numeri che dettagliano la realtà, poi c’è la percezione che gonfia i fenomeni, effetto anche di campagne mediatiche martellanti sui fatti di cronaca nera.

Le Camere penali (anche a Bergamo) hanno aderito all’astensione contro la decisione del governo di abbandonare la riforma dell’ordinamento penitenziario (la risposta dell’esecutivo è la costruzione di nuove carceri, ma non c’è un progetto né si capisce con quali soldi) e di ridurre il ricorso alle misure alternative alla detenzione (come i domiciliari o la semi libertà). Molti Paesi europei invece hanno approvato norme e riforme che le aumentano. Perché le misure alternative riducono la recidiva, cioè il ritorno a compiere reati una volta espiata la condanna. La recidiva per chi sconta tutta la pena in carcere è dell’80%, per chi usufruisce di misure alternative è del 20%. Ancora più bassa per chi lavora, nei penitenziari o fuori. Le carceri sono spesso luoghi criminogeni. Ma questa evidenza non entra nel giudizio dell’opinione pubblica. Far «marcire in carcere» le persone rende la società meno sicura. Non è solo una questione di linguaggio, ma di sostanza.

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