Mattarella e la lezione sulla vera libertà

Italia. Il presidente della Repubblica, premiando al Quirinale gli «eroi civili», ha sottolineato che «la libertà, in realtà, non trova limiti in quella degli altri, ma si realizza insieme agli altri, ma si realizza insieme a quella degli altri».

Un’affermazione che nella sua apparente semplicità prospetta un orizzonte estremamente suggestivo, che invita tutti a riflettere su quanto sia necessario che ogni cittadino si sforzi di guardare oltre il proprio naso e di aprirsi ad una concezione solidaristica dei rapporti con gli altri. Quali che siano le loro condizioni o i loro convincimenti. Questo il messaggio di Mattarella venerdì scorso. Oltre un secolo fa Giorgio Del Vecchio, uno dei massimi giuristi dell’epoca, sosteneva che negli Stati di diritto «la legge ammette di dover essere superata o meglio integrata, col ricorso ai principî generali del diritto, tra i quali ha il primo luogo quello che afferma il rispetto dovuto alla libertà, come valore assoluto della personalità umana.

La legge (o, meglio, le leggi) deve fare costantemente i conti con principî che non sono soltanto propri del diritto, ma ha anche significati etici e politici, poiché la libertà è un valore assoluto, in ogni tempo ed in ogni luogo. Senza di essa non può esservi né legalità né giustizia. Tali ideali hanno dovuto farsi largo non senza ostacoli. Occorre, infatti, partire dalla considerazione che, tradizionalmente, tanto nella dottrina giuridica quanto nella speculazione dei filosofi del diritto, la libertà era rappresentata quasi come un circuito chiuso: la libertà di ogni componente della società veniva limitata dalla libertà altrui: ciascuno nel suo spazio (più o meno vasto) come le tessere di un mosaico.

Questa concezione «difensiva» iniziò a scardinarsi all’inizio del XX secolo allorché le leggi ampliarono i diritti di partecipazione (a cominciare dal diritto di voto), includendovi le classi meno abbienti. Da quel momento libertà, diritto, legalità si sono venuti combinando reciprocamente, nel senso che soltanto leggi che indicano con chiarezza diritti e doveri di ciascuno hanno pienamente il carattere di norme «giuste» e assolvono al compito di tutelare la legalità. Il nesso tra questi elementi venne sottolineato, all’epoca del dibattito sulla redazione della nostra Carta costituzionale, da Piero Calamandrei, a giudizio del quale la legalità è condizione di libertà, perché solo la legalità assicura, nel modo meno imperfetto possibile, quella certezza del diritto senza la quale non può sussistere libertà politica.

Dunque libertà e diritto sono, nelle democrazie, il presupposto della legalità. Non sempre, peraltro, le leggi sono improntate a caratteri di giustizia (giuridica e/o sociale). In tali casi si parla propriamente di «leggi ingiuste» o, anche soltanto, di leggi «oscure». Il dibattito sulla connessione tra diritto (costituito dalle leggi) e giustizia (rappresentato dai valori, in primo luogo la dignità umana) è vecchio come il mondo.

Naturalmente, è illusorio pensare alla sfera del diritto come ad un eden paradisiaco. Nel contempo - guardando all’ordinamento del nostro Paese - non si può negare che esistano molte pecche e che una parte non indifferente della legislazione sia poco aderente all’ideale di giustizia. Di fronte a tale orizzonte si apre un bivio. O si decide di negare effettività e valore a norme indesiderate, oppure ci si batte per cambiarle. La prima opzione implica un atteggiamento passivo, se non addirittura volutamente non rispettoso delle leggi. Ciò vale soprattutto per coloro che violano la legge, consapevoli di farlo a vantaggio del proprio tornaconto. La seconda opzione assume, all’opposto, il significato della volontà di partecipare attivamente al miglioramento della legislazione e, di riflesso, all’ampliamento dei diritti. Come hanno dimostrato magistralmente gli «eroi civili» premiati.

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