Mediazione sullo stop ai licenziamenti, ora ci sono i nodi della legge elettorale

Se si sta alle previsioni della vigilia, oggi il Consiglio dei ministri dovrebbe varare il decreto d’agosto da tutti atteso per le sue misure di sostegno all’economia sofferente e all’occupazione. La maggioranza infatti ha (avrebbe) trovato un compromesso sul nodo politico principale contenuto nel decreto: il blocco dei licenziamenti. Il ministro grillino Nunzia Catalfo insieme alla sinistra di Leu voleva una proroga del blocco deciso durante le settimane del Covid e del lockdown fino alla fine dell’anno. Viceversa Italia Viva, molti del Pd e anche vari esponenti del M5S trovavano l’idea pericolosa e onerosa per le aziende.

Una frattura politica che rispecchiava esattamente la contrapposizione tra le parti sociali: da una parte Cgil, Cisl e Uil già minacciavano lo sciopero generale ove non si fosse prorogato il blocco al 31 dicembre mentre la Confindustria di Carlo Bonomi prevedeva proteste durissime degli industriali se si fosse dato retta alla Catalfo e ai sindacati. Alla fine il ministro dell’Economia Gualtieri ha tirato fuori la formula della mediazione: il blocco rimane ma solo per chi continua a usufruire della cassa integrazione che è prevista fino alla metà di novembre e a certe condizioni al 31 dicembre.

Un meccanismo complesso comprendente anche sgravi accompagna il compromesso che dunque non dovrebbe più incontrare una dura opposizione di una parte o di un’altra degli schieramenti sociali mentre ricompone il quadro politico messo in tensione. Insomma, segnali di pace.

Allo stesso modo arrivano parole di distensione sul referendum confermativo della riforma che taglia il numero dei parlamentari, in programma per il 20 settembre in accoppiata con il voto per il rinnovo di alcune Regioni. Il Pd scalpitava perché non vedeva realizzarsi la condizione che aveva posto per dire sì alla riforma grillina (fino a quel momento duramente avversata addirittura come anticostituzionale). Non vedeva cioè lo sprint per approvare una riforma elettorale compatibile con la forte diminuzione del numero dei deputati e dei senatori. Il segretario democratico Nicola Zingaretti si era spinto a definire «pericolosa» la riforma se non fosse stata accompagnata dalla modifica della legge elettorale in senso proporzionale.

Ora però Di Maio scende in campo in prima persona a sostenere la tesi del Pd: c’era un accordo, ha detto il ministro degli Esteri, e quell’accordo va mantenuto, per cui entro il 20 settembre la riforma elettorale (già scritta, in realtà, dagli esperti dei vari partiti e chiamata «Germanicum» per la somiglianza con il sistema tedesco) dovrà essere approvata almeno da un ramo del Parlamento. Di Maio rassicura Zingaretti ma questo non significa che lui abbia convinto Matteo Renzi a dire sì al proporzionale. Si sa che i voti di Italia Viva al Senato sono ormai determinanti per qualunque decisione: le defezioni grilline hanno reso decisivo il suo gruppo parlamentare, e dunque il «Germanicum» dovrà avere il suo via libera, che per il momento però non c’è ancora: anzi Renzi sostiene che si dovrebbe tornare al maggioritario della Seconda Repubblica.

Ma sarà proprio l’appuntamento del 20 settembre a sciogliere molti nodi. Il voto per le regionali e per il referendum ci dirà come il governo potrà andare avanti (rimpasto? «Fantascienza» sempre secondo Di Maio). Il prevedibile successo del «sì» referendario alla riforma rafforzerà i grillini che l’hanno fortemente voluta, mentre si conteranno vincitori e sconfitti tra i governatori di Liguria, Veneto, Toscana, Marche, Campania e Puglia.

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