Mediterraneo, Draghi cerca contrappesi
per l’Europa

Non si può commentare il tour diplomatico di Mario Draghi senza ricordare la decisione presa dalla Russia nelle stesse ore, ovvero quella di tagliare del 40% i flussi di gas verso la Germania, quindi verso l’Europa, attraverso il gasdotto Nord Stream 1, inaugurato nel 2011. È chiaro (e lo stesso premier lo ribadisce) che il primo obiettivo, oggi, è ridurre oppure annullare la dipendenza energetica dalla Russia, che intanto prova a farci capire quanto sia duro e costoso interrompere certe relazioni.

E Israele, seconda tappa di un viaggio che ha già portato Draghi in Algeria due mesi fa, è diventato negli ultimi anni uno snodo fondamentale per le questioni energetiche, grazie agli enormi giacimenti di recente scoperta.

Il tema del gas e della transizione verso fornitori alternativi alla Russia è l’emergenza di oggi, e l’istantaneo aumento dei prezzi al solo annuncio del mini-embargo decretato da Gazprom ne è la più evidente dimostrazione. Ma la visita di Draghi in Israele, seguita da quella in Turchia e dal viaggio a Kiev con Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Scholz, mette in risalto anche un’altra esigenza: quella di riportare il Mediterraneo sotto i riflettori della grande politica internazionale e, diciamolo pure, anche di costruire un contrappeso, all’interno dell’Unione Europea e non solo, all’influenza che l’asse Regno Unito-Polonia-Paesi Baltici e nordici ha assunto rispetto alle grandi questioni internazionali, guerra in Ucraina compresa. Sono note da tempo le ambizioni che la Polonia nutre per diventare, approfittando del declino della relazione tra Germania e Russia, il vero hub energetico d’Europa. E con esse quelle del Regno Unito, che vorrebbe creare una specie di pseudo-Ue (con Polonia, Baltici e la stessa Ucraina) alternativa alla vera Ue.

Per riportare in primo piano il Mediterraneo e i suoi Paesi maggiori, occorre però rivedere molti assunti tradizionali, mandati a carte quarantotto da quella crisi politica ed economica globale che chiamiamo «guerra in Ucraina». E il discorso non può che riguardare la Turchia, che di questa crisi ha saputo approfittare come nessun altro, piazzandosi al centro di qualunque ipotesi di mediazione. È curioso, e molto significativo, che Israele e Turchia, cioè il Paese che Zelensky sceglierebbe in caso di trattativa e quello con cui invece ha le relazioni più profonde la Russia, siano due dei Paesi che non hanno aderito alle sanzioni contro il Cremlino. E possiamo immaginare quanto piaccia a Draghi avere a che fare con quell’Erdogan che un anno fa definiva «un dittatore di cui però abbiamo bisogno».

Ecco, appunto. Di Erdogan, affacciato con le sue navi sul Mar Nero e padrone del Bosforo, c’è bisogno per provare a sventare la crisi alimentare mondiale. C’è bisogno di lui, che compra armi dalla Russia e ne vende all’Ucraina, perché la bilancia del conflitto in corso resta in equilibrio. Dipende da lui, e dal suo potere di veto, lo sbarco nella Nato di Svezia e Finlandia. E c’è ancora bisogno del Rais per la questione del gas. Erdogan è così centrale che persino gli Usa si sono acconciati a tagliare le gambe al gasdotto Poseidon-EastMed per non irritare la Turchia che nelle reti dei gasdotti in Nord Africa (leggi: Libia), nel Mediterraneo e nel Mar Nero ha investito moltissimo nel corso degli anni. In altre parole, per reagire all’onda d’urto dell’aggressività russa, occorre ridisegnare le relazioni mediterranee. E non a caso tutto questo è stato preceduto da una rapida distensione delle relazioni tra lo stesso Israele e la Turchia. L’abbiamo già scritto, e proprio qui: ci stiamo avventurando in un mondo nuovo, tutto da scoprire.

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