Milano non è tangentopoli

ITALIA. Il punto di partenza per non finire nella trappola dell’antipolitica che si illude di risanare la collettività gettando la politica nel girone degli ignavi è non confondere le vicende giudiziarie di oggi con Tangentopoli.

Ci risiamo? È bastato che comparisse la notizia dell’invio da parte della procura di Milano di una raffica di avvisi di garanzia a funzionari, architetti, amministratori, accusati del rilascio di licenze sospette per far scattare nell’opinione pubblica il riflesso condizionato: torna Tangentopoli. Mai cedere alle reazioni emotive. Meglio affidarsi alla ragione e cercar di capire quanto sta avvenendo. Non possiamo, nemmeno vogliamo, entrare nel merito della vicenda giudiziaria. Non tocca noi, non ne abbiamo la minima competenza. Vorremmo invece esercitarci a individuare lo specifico di questa nuova vicenda di intreccio tra politica e affari. Non attribuiamo nessuna connotazione spregiativa al termine «affari». Ci riferiamo semplicemente alla dimensione privata dell’operare economico. Che piaccia o meno, è questo un nesso non solo inestinguibile, ma anche vitale in una società moderna. Il problema dell’intreccio tra politica e affari non va affrontato perciò con un approccio moralistico. Questo porta dritto dritto a emettere una sentenza di condanna su tutto ciò che risulta non conforme alla nostra moralità. Il rischio è che, scontrandoci con la realtà, facciamo di tutt’erba un fascio, unendo l’illecito col lecito, il dannoso col profittevole. Proprio quello che abbiamo fatto nel 1992… e forse rischiamo di rifare oggi.

Errori del passato

Con Tangentopoli abbiamo buttato l’acqua di cultura della corruzione, ma anche il buono che c’era nell’organizzazione politica. Ci siamo ritrovati così senza partiti, un’articolazione vitale della democrazia, e per di più non si è arrivati a debellare la corruzione. Oggi, perseguendo per via legale l’intreccio di favori più o meno commendevoli, più o meno leciti, tra professionisti, amministratori e imprese, potremmo ricadere nella stessa trappola, aggrappandoci allo stesso pericoloso assioma: con il tutto negativo dell’(eventuale) conflitto di interessi, potremmo buttare anche quello straordinario portato urbanistico che è rappresentato dallo sviluppo di Milano, una grande città europea, attrattiva e, economicamente, locomotiva di un’Italia che sa mettere a profitto le grandi opportunità del mercato globale.

Servirebbe invece una strategia d’intervento che sapesse separare il grano dal loglio, quanto di vitale per la città ha portato la strategia – chiamata con una dose non piccola di ipocrisia – di «rigenerazione urbana» seguita dall’amministrazione comunale dalle pratiche non solo illecite, ma anche da quelle solo civicamente intollerabili in una democrazia: una speculazione edilizia selvaggia, il rincaro di abitazioni e di pigioni insostenibile per quei milanesi che non dispongono di un reddito stellare, la desertificazione della metropoli lombarda dai ceti non solo popolari ma anche medi e persino medio-alti, la consegna in definitiva della capitale morale d’Italia alla assai poco morale grande finanza internazionale.

Possibili soluzioni

Il punto di partenza per non finire nella trappola dell’antipolitica che si illude di risanare la collettività gettando la politica nel girone degli ignavi è non confondere le vicende giudiziarie di oggi con Tangentopoli. La differenza non sta solo nel fatto che allora si scambiavano mazzette ed oggi si scambiano (sembra) favori. La vera grande differenza è che Tangentopoli ha rappresentato la reazione della società civile alla prevaricazione della politica che la taglieggiava con «dazioni», condite da favoritismi, protezioni, nepotismi. Quanto emerge sinora dall’inchiesta di Milano sembra invece che si sia in presenza di una prevaricazione inversa: della società civile a danno della politica, ridotta a gregaria di potenti forze finanziarie che hanno nelle loro mani le chiavi della crescita economica. La soluzione non può essere quella di far finire su un binario morto la «freccia rossa» dello sviluppo sorprendente di Milano, pur di fermare la carica dei faccendieri. Molto meglio sarebbe rimettere sui binari di una gestione del business economico compatibile con l’interesse pubblico. «Vaste programme» (ampio programma) diceva De Gaulle, che tocca pur sempre alla politica e non alla magistratura.

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