Nel dibattito pubblico mediocrità e distanza dal sentire del Paese reale

Il commento Cosa non fa la ricerca ossessiva di un gruzzolo di voti, specie quando se ne constata la volatilità e l’assenza di generosità di un tempo. Ma, ci si chiede: può l’Italia, membro del G7 e seconda manifattura d’Europa, e con il debito pubblico che si ritrova, permettersi il lusso di subire le contorsioni post-elettorali di alcuni partiti?

Al di là del destino dei singoli, c’è un rischio Paese sottovalutato. Mentre la storia ci passa accanto e i guai economici sono qui per restare, ci si ferma alla bottega delle tribù come l’ombelico del mondo. Dinanzi alla mediocrità del dibattito pubblico si radicalizza la distanza fra Paese reale e Paese legale. Uno squilibrio fra domanda di una politica mediamente accettabile e povertà di offerta. Nel mezzo di una guerra e di un’inflazione montante s’è rischiata una crisi di governo e ora sappiamo che se si stacca la spina si andrà alle elezioni.

Le recenti amministrative hanno risposto a Cinquestelle e Lega che non è conveniente picconare il governo di cui, nonostante tutto, si fa parte. L’astensionismo, che dovrebbe essere un monito, è scivolato via. Il governo ha appena raggiunto tutti i 45 obiettivi del Pnrr che dovevamo centrare entro fine giugno, e pare che non importi a nessuno. Draghi è reduce da una serie di vertici (Europa, G7, Nato) tutto sommato positivi, in cui si sono ridefinite le strategie euro-atlantiche, eppure non c’è uno straccio di riflessione anche da parte di quelli che, come i grillini, sono legittimamente critici. Un sistema politico ripiegato su se stesso, disconnesso dalla vita quotidiana dei cittadini. Manca il senso della gravità della situazione, fra l’estate bollente dei prezzi e l’autunno che già si preannuncia caldo.

Si invoca il metodo concertativo di Ciampi, ma resta un’ipotesi di scuola. Crescita dell’inflazione e contraccolpi della guerra in Ucraina, che non sarà breve, possono determinare una crisi sociale forte e non si delinea una chiara priorità nella capacità di dare una risposta. I dossier non mancano (salari, potere d’acquisto, cuneo fiscale, reddito di cittadinanza), tuttavia l’interesse generale s’è frantumato nella difesa corporativa dei ceti di riferimento. Lo schema è scontato: le contraddizioni interne dei partiti si trasferiscono sul governo, in particolare sul premier, proprio mentre la politica del fare e le urne testimoniano l’inutilità e il danno del populismo che torna indietro come un boomerang contro i suoi promotori.

Fin qui lo smottamento dei 5S e il tramonto della stella salviniana si sono incrociati, alimentandosi a vicenda. Se però nella Lega l’ala governista e territoriale ha istituito una specie di cordone sanitario per circoscrivere le esternazioni del segretario, il caos e i veleni dei grillini incontrano il vuoto di leadership. Se la Lega ha un paracadute, pur rammendato, il progetto di Conte (traghettare il movimento verso la compatibilità con il mondo reale) poggia su presupposti che l’ex premier non è in grado di garantire. Stretto com’è fra reinvenzione del grillismo e richiamo della foresta, fra l’ostilità di un indecifrabile Grillo e la diaspora di Di Maio, l’inseguimento di un tema dalle tinte forti che mobiliti. Draghi può rappresentare l’avversario su misura, in quanto è il controracconto alternativo al radicalismo.

Vedremo l’esito del faccia a faccia di domani fra il premier e il suo predecessore, pur sapendo che Conte è un esperto di penultimatum, consapevole che oltre un certo limite spunta l’irrilevanza. È proprio il rischio Paese a ribadire che nessuna delle ragioni che hanno portato alla nascita del governo d’emergenza è venuta meno, compresa quella di essere l’esito della crisi del bipolarismo.

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