Nell’Italia geniale fatta di scoperte e invenzioni resta il gap sulle risorse

Spiegare quanto sia importante la ricerca e i ricercatori per un Paese è assolutamente superfluo. L’Italia, la terra di scienziati e ingegneri, di Fermi, Marconi e Meucci, è diventata la settima potenza economica mondiale grazie alla ricerca e nient’altro: c’è qualcosa di meravigliosamente creativo nel Dna degli italiani, capace di passarsi il testimone delle scoperte e delle invenzioni, dal misuratore della pressione all’aliscafo, fino al polipropilene di Giulio Natta, al microchip di Federico Faggin all’algoritmo di Andrea Viterbi, lasciando da parte i progressi attuali dell’intelligenza artificiale. Se siamo arrivati ai vaccini anti Covid lo dobbiamo a molti ricercatori italiani (per non parlare dei macchinari sanitari, come il casco per l’ossigeno). E non si tratta solo di ricerca applicata: abbiamo ottenuto straordinari risultati anche con quella di base, che non ha apparentemente applicazioni pratiche.

Ad esempio, quella sulle particelle responsabili delle «interazioni deboli» del Nobel del 1984 Carlo Rubbia, l’ultimo italiano ad aver ricevuto il riconoscimento dell’Accademia di Stoccolma prima di Giorgio Parisi, lo studioso del caos che ha osservato come nel nostro Paese sarebbero necessari più finanziamenti per la ricerca: almeno un miliardo e 100 milioni in più all’anno. Oltretutto le differenze tra ricerca di base e applicata – la prima mossa dalla sola curiosità esplorativa e portata avanti dai centri e dalle università, la seconda da finalità pratiche, sostenute di solito dalle imprese - oggi non ha più senso, poiché la velocità con cui una ricerca di base diventa applicata è tale da non poter più distinguere nettamente tra le due, come d’altra parte un progresso tecnologico può sviluppare delle conoscenze di base che cambiano totalmente il settore scientifico e teorico di riferimento.

E i finanziamenti? Attualmente la spesa è dell’1,4 per cento rispetto al prodotto interno lordo, pari a circa 25 miliardi di euro. Di questi, poco meno di 16 miliardi sono trainati dalle imprese pubbliche e private (dati Istat). La media europea è del 2,1 rispetto al Pil mentre la prima per investimenti all’interno dell’Unione è la Germania con il 3,1 per cento, più del doppio rispetto al nostro Paese.

«Dopo 13 anni di vacche magre ora stiamo cominciando a migliorare», ha dichiarato all’agenzia Ansa Parisi, che è anche il vicepresidente dell’Accademia dei Lincei. In effetti il ministro dell’Università e della Ricerca scientifica Cristina Messa ha recentemente annunciato l’arrivo di 15 miliardi di fondi in sette anni grazie al Piano nazionale di Ripresa e Resilienza. Parisi dice che ne servirebbe uno in più all’anno per arrivare a condizioni ottimali.

Sempre secondo il piano dello scienziato è necessaria una cabina di regia, una struttura leggera e veloce che controlli i fondi e li destini in tempi rapidi, mentre la ricerca attualmente è nelle mani, oltre che del ministero dell’Università e Ricerca, dei ministeri di Salute, Politiche agricole, Sviluppo economico e Transizione ambientale, per non parlare delle Regioni (per non parlare dei Centri nazionali relativi ai vari settori tecnologici). Parisi, sogna «un ufficio fatto di scienziati che lavorino a tempo pieno», sul modello del Comitato di esperti per la ricerca proposto nel 1998 da Giovanni Berlinguer o della Consulta proposta nel 2016. Serve un coordinamento. Altrimenti la ricerca, che significa sintesi creativa, saperi e competenze, può finire in uno dei suoi studi sul caos.

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