Nessuno deve spiegare perché è italiano

Paola Egonu è una campionessa di pallavolo. Di più: è una fuoriclasse, capace di gesti pieni di forza e grazia insieme. Paola Egonu è una giocatrice nata a Cittadella, profondo Nordest, da genitori nigeriani. Camionista il papà, infermiera la mamma. È nata a Cittadella, è cittadina italiana, è giocatrice della Nazionale italiana. Eppure, ha detto sabato sera dopo aver conquistato il bronzo mondiale, c’è ancora chi le chiede «perché» sia italiana. Si è detta stanca, e pronta a lasciare la maglia azzurra, a soli 24 anni.

Speriamo non sia così, ovviamente. Perché Paola è una campionessa come ne nascono pochissime. E perché quella azzurra è la miglior maglia che Paola possa indossare su un campo di pallavolo. Quella per cui tutti tifano, o dovrebbero. Eppure, dice Paola in lacrime, c’è chi la bersaglia, chi la detesta, chi, sottintendendo ma nemmeno troppo un razzismo becero, tanto ignorante quanto sprezzante, le scarica addosso quell’odioso perché. Siamo ancora a questo, anno di grazia 2022: non solo al rifiuto di riconoscere come concittadini coloro che nascono qui e che (al compimento della maggiore età, come fosse la patente…) acquisiscono il passaporto italiano, ma anche al domandarsi perché. Come se Paola Egonu, e con lei tutti coloro che vivono le medesime frustrazioni anche se lontani dal clamore, dovesse giustificarsi. Come se quasi (ma per molti anche senza quasi) fosse una colpa avere genitori venuti qui dalla Nigeria, essere nata qui, essere vissuta qui, essere diventata, qui, una campionessa da Nazionale. Perché sei italiana, Paola? Tu, con quei tratti somatici che di Cittadella non hanno niente di niente. Tu, che sei alta uno e novantatré, che in Italia noi non nasciamo mica così. Tu, con quella pelle poi… Tutto questo in Italia si dice, si sussurra, a volte si strilla. Con sempre meno vergogna, talvolta persino con orgoglio d’altri tempi. Poi si può far finta di niente, ci si può fare il callo, la più triste delle assuefazioni.

Tutto questo in un Paese, l’Italia, che ha disseminato i suoi cognomi ovunque. E chiunque abbia avuto in famiglia storie di emigrazione sa cosa significhi non sentirsi accettati. Gli italiani – e i bergamaschi – sono andati in Svizzera, in Francia, negli Stati Uniti, in Argentina, in Australia. Tante Little Italy, nel mondo. Per fare comunità, per sentirsi a casa. Ma anche per sentirsi protetti, meno rifiutati. «Ne joue pas avec les italiens», dicevano negli anni ’40 i genitori francesi ai loro piccoli: non giocate con loro. E quando «les italiens» passavano, erano sassate. Anche se quei bambini erano nati lì, in Francia, da genitori italiani andati via da casa per trovare un lavoro. Povero, misero, senza diritti, ma un lavoro che qui non c’era.

Da quegli anni e da quelle storie, vissute e piante in tutti i continenti, sono passati decenni. Lotte come quelle di Mandela qualcosa dovrebbero aver insegnato. Eppure il suo «Never, never, and never again» resta ancora inascoltato dalle coscienze di chi si chiede perché Paola Egonu – e con lei migliaia di bambini nati in Italia, curati negli ospedali italiani, istruiti dalle nostre scuole, cresciuti come cittadini dalle nostre Istituzioni - debba essere italiana. Sono storie tristi, che abbiamo visto già tante, troppe volte. Soprattutto nel calcio, dove sono sempre di più i giocatori di radici africane e cittadinanza italiana. E anche a loro, come agli stranieri, viene presentato il conto di quell’ignoranza che si alimenta di distinguo, di noi e loro, di differenze, che sempre di più mette il dito sul grilletto di quella gretta cattiveria che fa dire che sì, Paola è nata qui, però.

Il mondo cambierà davvero quando nessuno dirà e nemmeno penserà più quel «però». Quando le parole di Mandela, dette a Pretoria il 10 maggio 1994 dopo 27 anni in una cella calata nell’oceano, saranno storia una volta per tutte, e non suoneranno più tremendamente attuali. La Terra è un solo Paese, capitela.

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