Non c’è risarcimento
per gli anni rubati

L’ultimo caso di ingiusta detenzione non è il più grave. Medhanie Tesfamarian Behre, falegname eritreo arrestato in Sudan ed estradato nel 2006, ha trascorso tre anni in carcere da innocente perché scambiato, a partire da una fotografia, con Mered Medhaine Yedhego, potente boss del business del traffico di esseri umani in Libia. Nei giorni scorsi una sentenza della Corte d’assise di Palermo ha riconosciuto lo scambio di persona. Al contempo però è stato condannato a cinque anni per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per aver mandato i soldi di cugini a un trafficante per il loro viaggio verso l’Europa.

Il falegname eritreo si trova ora nel Centro per rimpatri a Caltanisetta, in applicazione del decreto sicurezza, nonostante abbia presentato istanza di asilo politico. La commissione si riunirà a giorni. L’avvocato del migrante parla di «evidente accanimento nei confronti di quest’uomo».

Ma ben più clamoroso è il caso di Giuseppe Gulotta, condannato per una strage che non aveva commesso: ha trascorso 22 anni in carcere. Fu accusato dell’omicidio di due carabinieri della caserma di Alcamo Marina avvenuto il 26 gennaio 1976. Arrestato e mandato all’ergastolo, quando aveva 18 anni, venne assolto dalla Corte d’appello di Reggio Calabria, dopo una lunga serie di processi. Era stato risarcito per l’ingiusta detenzione con 6,5 milioni di euro, ma i suoi legali pretendono che paghi anche chi portò i giudici a emettere una sentenza ingiusta. Fu stabilito che la confessione venne estorta. Nella nuova richiesta, pari a oltre 66 milioni di euro, vengono conteggiati tutti i danni non patrimoniali (morale ed esistenziale). Gulotta ha scritto un libro nel quale racconta la sua maledetta storia. Ma quanto valgono 22 anni rubati? Gli affetti, l’amore, la libertà, la vita con le sue difficoltà e la sua bellezza? Non c’è cifra che possa restituire il maltolto.

Nel 2016 venne invece liberato Hashi Omar Hassan, unico condannato (a 26 anni) per l’omicidio della giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e del cineoperatore Miran Hrovatin, avvenuto a Mogadisco il 20 marzo 1994: fu scagionato dalla Corte d’appello di Perugia dopo aver trascorso 17 anni in regime di detenzione. L’inviata, durante il suo viaggio in Somalia, aveva messo le mani su un lucroso traffico internazionale di armi e di rifiuti tossici: una scoperta che le è costata la vita insieme a Hrovatin. La famiglia Alpi non aveva mai creduto nella colpevolezza di Hassan, un capro espiatorio. L’uomo fu scagionato dopo 17 anni di ingiusta detenzione da chi lo aveva accusato. Il processo che gli restituì la libertà si concluse con un abbraccio fra Luciana Alpi, mamma di Ilaria, e l’ex detenuto. I genitori della giornalista, che tanto avevano combattuto per arrivare alla verità, sono morti senza conoscerla, logorati anche dalla battaglia, fra silenzi, coperture e tranelli.

Ottenere i dati ufficiali sulle vittime di ingiusta detenzione e di errori giudiziari non è semplice. In teoria una legge imporrebbe al ministro della Giustizia di comunicarli entro il 31 gennaio di ogni anno. Ma, ad oggi, queste statistiche non sono ancora state rese pubbliche. Non resta che affidarsi al sito «Errorigiudiziari.com», un progetto dei giornalisti Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone che si propone di essere il primo archivio online per raccogliere, tra le altre cose, tutti i casi di ingiusta detenzione. Qui si legge che dal 1° gennaio 2018 al 30 settembre 2018 sono stati 856 i casi di ingiusta detenzione, per i quali è stato stimato un risarcimento totale da parte dello Stato pari a quasi 30 milioni. Proiettando lo stesso andamento sugli ultimi tre mesi dell’anno scorso, si supera facilmente la soglia dei mille casi. Sempre grazie all’elaborazione di «Errorigiudiziari.com», si scopre come dal 1992 al 2017 sono state 26.412 le persone che hanno subito un’ingiusta detenzione. Poco più di mille all’anno di media, tre al giorno.

Nel clima manettaro che attraversa l’Italia può suonare eversivo il saggio detto latino «in dubio pro reo», nel dubbio giudica in favore dell’imputato. Che ha una valenza più estesa nel detto «meglio un colpevole libero che un innocente in carcere». Il grande giudice Giovanni Falcone, ucciso dalla mafia proprio per la sua statura professionale, ci ha lasciato in eredità alcuni brevi pensieri che converrebbe conoscere perché attualissimi: «L’avviso di garanzia non è una coltellata che si può infliggere così, è qualcosa che deve essere utilizzato nell’interesse dell’indiziato»; «per fare un processo ci vuole altro che sospetti e bisogna distinguere le valutazioni politiche dalle prove giudiziarie»; «è profondamente immorale che si possano avviare delle imputazioni e contestare delle cose nell’assoluta aleatorietà del risultato giudiziario». Almeno quando commemoriamo l’uccisione di Falcone, ricordiamocele.

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