Non dimentichiamoci che nulla è dato per sempre. Ora c’è bisogno di tutti

Lo sappiamo tutti perché questo 25 Aprile non è come gli altri che lo hanno preceduto nei settantacinque anni di storia della Repubblica liberata dagli occupanti nazisti e dai fascisti rimasti loro alleati. Non è come gli altri perché cade in un momento del tutto inedito, nella sua drammaticità, della nostra vita nazionale. Nessun paragone storiografico può essere onestamente stabilito tra la pandemia del coronavirus e la Seconda Guerra mondiale che all’Italia costò mezzo milione di morti tra civili e militari, stragi inimmaginabili di civili e la distruzione di tanta parte di città, strade, ferrovie, fabbriche, porti, ridotti ad un cumulo gigantesco di macerie. Senza dimenticare la fame, tanta fame.

Per risollevarsi con onore da quella immane tragedia occorse una sanguinosa guerra di Resistenza partigiana che si affiancò ai nostri ex nemici americani e inglesi che risalivano la Penisola.

No, nessun paragone storico è possibile. E tuttavia i morti a decine di migliaia che piangiamo oggi, soprattutto tra i nostri anziani, il senso frustrante dell’isolamento, il timore di una crisi economica devastante, oggi come allora mettono in gioco il nostro essere un popolo che è tale perché si sente unito dal medesimo destino, e reclamano la nostra capacità di reazione alle avversità da cui ci vogliamo e ci dobbiamo, appunto, liberare.

In questo senso allora, è sì possibile e lecito un parallelo tra l’Italia di allora e quella di oggi, e ce lo dicono proprio i tanti anziani che sono stati falciati dal virus: perlopiù erano nati nei primi decenni del Novecento, tanti nel ’45-’46 erano già sufficientemente cresciuti per ricordare lucidamente le sofferenze di quelle giornate che ci portavano dalla guerra alla pace, dalla morte alla vita, dalla dittatura alla libertà. Il Covid-19 ha stroncato anche alcuni che furono giovanissimi partigiani, magari staffette bergamasche come Francesco Nezosi, 90 anni, di Fonteno. Alla loro memoria si deve, oggi come allora, il riscatto, la ripresa, il nuovo inizio. Non sarà un caso che in queste settimane di clausura casalinga dai balconi di tanti condomìni abbiamo ascoltato – e non è cosa proprio frequentissima tra noi - le note dell’Inno nazionale e di Bella Ciao, e abbiamo visto esposto il Tricolore. Sono simboli di una unione che però poca cosa sarebbe se non fosse basata sulla solidarietà, sull’aiuto reciproco, sulla dedizione. Quanti esempi abbiamo visto in queste circostanze, di spirito di sacrificio, di gente che si è data senza risparmio per la cura e la salvezza di persone che non conosceva, ben oltre l’obbligo professionale o lavorativo fino a toccare – e purtroppo in molti casi a oltrepassare – il rischio del contagio.

No, non è un 25 Aprile come gli altri, questo del 2020. Ma servirà a riflettere su noi stessi, sui nostri valori di vita, sulla nostra capacità di essere una comunità solidale aperta al mondo ma gelosa della propria memoria.

Chi ha combattuto, armi in pugno, per l’Italia e la Repubblica sognava un Paese libero di cittadini uguali che si aiutano reciprocamente quando ce n’è bisogno. Adesso ce n’è bisogno. Non solo per difendere ancora e finchè sarà necessario la salute collettiva, non solo per il pane quotidiano, ma anche per la libertà garantita da una democrazia funzionante. Niente è scontato a questo mondo, niente è dato una volta per tutte, tanto meno in questi tempi incerti e impauriti. È bene che ce ne rendiamo conto.

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