Non semplice tradizione
ma occasione per riflettere

Che i tempi siano profondamente cambiati, tanto da significare poco o nulla per buona parte di bergamaschi, non si discute, eppure non è così vero che la festa che Bergamo si appresta a vivere oggi – quella dedicata al suo patrono, Sant’Alessandro – non ha più niente da dire a tutti noi, o almeno a quelli che ancora hanno a cuore i destini e la sorte di questa città. La statua di Alessandro posta al culmine della cupola del Duomo non è un semplice decoro architettonico messo lì per caso: al di là delle convinzioni religiose di ciascuno, rappresenta il preciso punto di riferimento di una comunità, scelto dai nostri Padri nei secoli scorsi come simbolo capace di incarnare i valori nei quali i bergamaschi – tutti, da sempre – si sono riconosciuti: non «semplicemente» la fede, tanto da votarsi al martirio, piuttosto la convinzione di essere uomini autentici, liberi nel pensiero, forti nell’animo, costruttori di pace, saldi nel perseguire i valori evangelici rappresentati proprio dall’uomo che si è voluto scegliere come esempio da seguire e da imitare.

Le fede non è un orpello proprio perché nelle fede questi valori si sono fondati e si sono nutriti, sviluppandosi così intensamente da essere accolti anche dalla società laica, che li ha fatti propri. Festeggiare il patrono oggi non vuol dire partecipare al Pontificale in Duomo per fare un mero atto di presenza, bensì fermarsi a riflettere sulla necessità di riannodare i fili con una storia – una storia di esempi e di virtù – che ha ancora molto da dirci e da insegnarci, anche se buona parte di noi la considera ormai morta e sepolta. I giovani, in particolare, che hanno anch’essi l’esigenza umana di ancorarsi a un personaggio-immagine (cambiano i tempi, ma l’uomo e il suo bisogno di identificarsi in qualcuno o in qualcosa restano gli stessi), del patrono non sanno nulla: ne hanno perso il senso e il significato. Come in politica, e questo agosto l’ha ampiamente dimostrato: ognuno ha il proprio, di patrono, forse più padrino che patrono. Festeggiare Sant’Alessandro nell’anno 2019 vuol dire riconoscere l’esigenza di rinnovare gli impegni dei nostri antenati e di riaffermare quei valori, autentici ancora oggi, gli stessi che hanno consentito a chi ci ha preceduto di fare così grande e operosa la nostra terra bergamasca. Sono impegni e valori che non dobbiamo perdere o dimenticare, che prescindono dalla fede, ma che nella fede si sostanziano con vigore, profondità e ricchezza.

Festeggiare il patrono non è semplice tradizione popolare, che pure ha un valore «narrativo» fortissimo, capace di tenere insieme passato, presente e futuro, ma è – anche solo per un giorno – l’ispirazione ideale per guardarsi dentro e chiedersi se anche noi, oggi, siamo capaci di esprimere la stessa forza morale di chi ci ha preceduto. Una riflessione a cui è chiamata tutta la città, che a volte – troppe, per la verità, negli ultimi anni – sembra aver smarrito quei capisaldi di integrità che l’hanno sempre guidata e sorretta nei periodi difficili della propria storia. «Un attenuarsi della presenza viva del patrono nella comunità – ha scritto oltre trent’anni fa il mio illuminato predecessore, mons. Andrea Spada – diventerebbe il sintomo grave che essa sta smarrendo uno dei perni più significativi della sua unità, non soltanto della sua tradizione cristiana e civica. (…) Se viene meno anche questo perno morale, religioso e storico che è il santo patrono, vuol dire, per la comunità, avviarsi verso il calderone dell’anonimato, perdere la sua stessa identità, non essere più famiglia. E quando non è più famiglia, anche la comunità religiosa è condannata a disperdersi e a finire». Non è un mistero che anche a Bergamo la crisi delle vocazioni abbia raggiunto punte drammaticamente preoccupanti, tanto da lasciare sguarnito pure il nostro Seminario, ma credere che il problema – e le responsabilità – siano solo di altri, e non anche nostre, è profondamente sbagliato. Il mondo è cambiato, si dirà, ma a cambiarlo abbiamo contribuito anche noi. I giovani raccolgono con sempre maggior fatica la chiamata di Dio al servizio degli altri, e molti di quei pochi che con grande coraggio vogliono rispondere a quell’invito finiscono con lo smarrirsi tra le «sirene» di una società sempre più egoista, individualista, visibilmente incline a non curarsi del loro impegno e, dunque, a farne a meno.

È logico che di fronte a simili prospettive, qualcosa in loro si spezzi, mandando all’aria ogni progetto di condivisione. Ma le vocazioni, ormai da molti anni a questa parte, non nascono più (o solo) in Seminario, ma in quella che il Concilio Vaticano II ha chiaramente definito come «Chiesa domestica», cioè la famiglia. È lì che la vena della fede cresce e si alimenta, ma se ad essere in crisi è la famiglia (e di famiglie ce ne sono sempre meno, e di famiglie che mettono al mondo dei figli ancor meno) va da sé che le responsabilità sono sempre più in capo a una comunità piuttosto che a un singolo. La trasformazione di un uomo in un sacerdote è certamente un miracolo di Dio, ma anche il frutto della «com-passione» con un cui una comunità (anche quella religiosa) lo affianca e lo sostiene. Non a caso, proprio nei giorni scorsi, in una lettera inviata all’arcivescovo di Parigi, mons. Michel Aupetit, e ai cattolici di Francia, Papa Francesco ha invitato i credenti ad essere «costruttori di una nuova umanità in Cristo». E nella lettera di ringraziamento e di sostegno scritta ai sacerdoti di tutto il mondo il 4 agosto scorso, il Pontefice ha ricordato loro come «un giorno abbiamo pronunciato un “si” che è nato e cresciuto nel seno di una comunità cristiana grazie a quei santi “della porta accanto” che ci hanno mostrato con fede semplice quanto valeva dare tutto per il Signore e il suo Regno». Nel ricordarci, oggi, di Sant’Alessandro ricordiamoci anche di questo. E, forse, vale la pena farsi la stessa domanda che lo scrittore inglese James Gordon Farrell si è posto scrivendo «L’assedio di Krishnapur»: «Noi guardiamo alle età passate con condiscendenza, come si trattasse di una mera preparazione per ciò che siamo… E se invece fossimo solo un ultimo bagliore di esse?». Buona festa del patrono a tutti.

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