
(Foto di Ansa)
MONDO. L’astensione dell’Italia sull’Accordo pandemico dell’Oms è un autogol clamoroso, una dimostrazione lampante di come un sovranismo miope possa diventare non solo sbagliato, ma stupidamente pericoloso.
La motivazione addotta, la necessità di «riaffermare la sovranità degli Stati nell’affrontare le questioni di salute pubblica», suona più come una scusa imbarazzante che una strategia lungimirante, soprattutto quando si parla di un nemico che, per sua stessa natura, dei confini si disinteressa altamente. I virus non sono decreti o direttive, sono un nemico invisibile. Se un giorno i marziani sbarcassero in Europa, l’Italia che farebbe? Si asterrebbe?
Le pandemie, è bene ricordarlo, non riconoscono bandiere, passaporti o normative doganali. Non si possono mettere i dazi a un virus. Non funziona. L’idea di poter combattere un’emergenza sanitaria globale con un approccio isolazionista è un’illusione dannosa, un’idiozia concettuale che rischia di pagar cara la salute e l’economia dei nostri cittadini, peraltro in contrasto con quei principi di collaborazione e solidarietà che esige un’emergenza. Abbiamo già vissuto l’incubo del Covid-19, un’esperienza che avrebbe dovuto insegnarci, una volta per tutte, l’importanza vitale del coordinamento internazionale, della condivisione delle risorse e dell’accesso equo a vaccini e terapie.
L’Accordo pandemico dell’Oms, frutto di anni di negoziati e approvato da 124 Paesi, è esattamente questo: uno strumento per rendere il mondo più sicuro ed equo di fronte a future crisi sanitarie. Parla di accesso tempestivo a vaccini, terapie e strumenti diagnostici. Parla di rafforzare l’architettura sanitaria globale. Non parla di imposizioni, ma di collaborazione. E proprio qui sta il paradosso dell’astensione italiana: mentre si celebra l’inclusione del principio di «sovranità degli Stati» nel testo dell’Accordo, si dimentica che la vera sovranità, in un mondo interconnesso, si esercita anche attraverso la capacità di agire in sinergia con gli altri per affrontare sfide che superano le singole capacità nazionali.
L’Italia, che ha patito duramente la pandemia, avrebbe dovuto essere in prima linea nella promozione e nell’adozione di un accordo così cruciale. Invece, si è accodata a Paesi con storie e contesti geopolitici ben diversi, offrendo un segnale di incertezza e, francamente, di scarsa lungimiranza
La retorica del «prima gli italiani» applicata a un virus è non solo priva di senso, ma profondamente ridicola. È un approccio che ignora la lezione più dolorosa della pandemia: nessuno è al sicuro finché non lo siamo tutti. L’Italia, che ha patito duramente la pandemia, avrebbe dovuto essere in prima linea nella promozione e nell’adozione di un accordo così cruciale. Invece, si è accodata a Paesi con storie e contesti geopolitici ben diversi, offrendo un segnale di incertezza e, francamente, di scarsa lungimiranza. Si spera che le «questioni in sospeso che meritano ulteriori approfondimenti» siano tali da non compromettere in futuro la piena adesione dell’Italia a un patto che, prima di essere una questione politica, è un imperativo di salute pubblica.
Questa astensione rischia di isolare l’Italia in un momento storico in cui la solidarietà internazionale è più che mai cruciale. La narrazione del «Paese sovrano» che agisce da solo, pur suggestiva per alcuni, si scontra con la brutale realtà di virus che non conoscono confini. È tempo di superare queste visioni anguste e abbracciare una prospettiva di interdipendenza. Il futuro della salute globale non si costruisce con l’isolamento, ma con la collaborazione, la fiducia e l’impegno comune. L’Italia, con la sua storia di solidarietà e apertura, dovrebbe essere un faro in questo processo, non un’ombra. Fino a quando non comprenderemo che la nostra salute è indissolubilmente legata a quella di tutti, rimarremo una nave senza bussola, destinata a navigare in un mare sempre più ostile, con il rischio di affondare al primo colpo di vento.
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