Papa Luciani, il sorriso che è amore e carità

Il sorriso. Come dimenticarlo? Chi scrive, come milioni di persone con qualche anno sulle spalle, se lo ricorda bene quel volto acceso dalla gioia che ha illuminato quei 33 indimenticabili giorni. Giovanni Paolo I, al secolo Albino Luciani, beatificato ieri da Francesco durante una solenne celebrazione eucaristica in San Pietro, passerà giustamente alla storia come il Papa del sorriso.

Aveva scelto quel nome perché voleva rifarsi ai pontificati di Papa Roncalli e Papa Montini. E dal primo, dal «Papa buono», certamente aveva attinto quell’espressione gaudente. Gaudente come la Chiesa, sorridente come una madre che guarda intenerita suo figlio. «Dio è madre», diceva infatti dalla cattedra pontificia in diretta televisiva – in quel lontano 1978, l’anno dei tre Papi (Montini, Luciani, Wojtyla) - scandalizzando i benpensanti. Lo ha sottolineato ieri anche Bergoglio: «È bella una Chiesa con il volto lieto, il volto sereno e sorridente, che non chiude mai le porte, che non inasprisce i cuori, che non si lamenta e non cova risentimento, non è arrabbiata e insofferente, non si presenta in modo arcigno, non soffre di nostalgie del passato, cadendo nell’indietrismo. Preghiamo questo nostro padre e fratello, chiediamo che ci ottenga “il sorriso dell’anima” quello trasparente, quello che non inganna».

Il sorriso dell’anima. Per Papa Francesco questo è il primo insegnamento da trarre dallo stile del pontefice di Canale d’Agordo. Una lezione che ci riguarda tutti, a 44 anni dalla sua morte.

Dietro quel sorriso non vi era nulla di ingenuo, di naif, o peggio ancora di giulivo, ma una profondità di pensiero teologico che arrivava al suo compimento. Non c’era nulla all’acqua di rose nel patriarca di Venezia che alla vigilia del Conclave scherzava dicendo che per fortuna non faranno mai lui Papa. C’era, insomma, in quel sorriso, la fede. C’era una personalità rigorosa, tenace, caparbia, inflessibile, totalmente dedita all’insegnamento di Gesù, innamorata della comunicazione del Verbo e dei fedeli della sua diocesi. «Il nuovo beato», ha detto Francesco nell’omelia, «ha vissuto così: nella gioia del Vangelo, senza compromessi, amando fino alla fine. Egli ha incarnato la povertà del discepolo, che non è solo distaccarsi dai beni materiali, ma soprattutto vincere la tentazione di mettere il proprio io al centro e cercare la propria gloria». Al contrario, «seguendo l’esempio di Gesù, è stato pastore mite e umile. Considerava sé stesso come la polvere su cui Dio si era degnato di scrivere».

Nel caso di Luciani dire sorriso è come dire amore. L’amore caritatevole della lettera di San Paolo ai Corinzi («Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna»). L’amore della Chiesa, della misericordia, che non ha confini, smisurato e infinito. Anche il Papa, ieri, rivolgendosi ai pellegrini accolti da ogni parte del mondo, in particolare dal Veneto, ha raccomandato «l’amore fino in fondo, con tutte le sue spine».

La brevità di quel pontificato così breve eppure così fecondo rimane un mistero di Dio. Ma l’effetto sprigionato da quel battito d’ali per la Chiesa è immenso. Il Papa del sorriso ha lasciato un segno profondo che si è tramutato in uno stile, da cui non è più possibile tornare indietro. A leggere i suoi scritti si rimane stupiti per quanto il pontefice della Misericordia riflettesse sulla carità e sulla sua declinazione teologica e pastorale. Le sue ultime parole, vergate sull’agenda poche ore prima di morire per il suo cuore tanto debole quanto immenso, sono state: «Che io vi ami sempre più». Cinque parole che valgono quanto un testamento spirituale.

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