Paralimpiadi, la vita è una sfida vincibile

Gli antichi greci avevano una parola per esprimere che cosa succede ogni volta che a teatro si mette in scena una tragedia. «Catarsi», che vuol dire purificazione. Il tragico inevitabile che scorre dentro la storia di Edipo, di Oreste, di Medea ha la stessa consistenza, solo un po’ più letteraria, del dramma a cui la vita di nessuno spettatore sfugge. Nemmeno la nostra. Per ciascuno la sorte sembra aver riservato, con i suoi tempi cinici e imprevedibili, la sua quota tragica e ineluttabile di amarezza, con cui imparare a fare i conti per affrontare la vita. Non si va lontano con la speranza che vada sempre tutto bene. E i greci sapevano che per questo c’è bisogno di catarsi, di una purificazione collettiva che aiuti ciascuno e la comunità a non rimanere avvelenata dalla potenza del tragico.

La tragedia greca metteva in scena un male in cui ciascuno poteva riconoscere la somiglianza con il tragico della propria vita quotidiana: questa immedesimazione con i personaggi, in cui si poteva riversare una parte della propria fatica e del proprio male di vivere, faceva uscire da teatro con la certezza che, nonostante tutto, ce la si poteva fare. Lo spettacolo era una metafora del tragico quotidiano: qualcosa che gli assomigliava e che aiutava a trasfigurarlo. La vita è una sfida che si può vincere. Per certi aspetti, le Paralimpiadi sono una moderna catarsi. Una purificazione che trasfigura il potere distruttivo e deprimente del male che fa parte della storia. Non soltanto il tragico che appartiene alle biografie degli atleti in gioco, ma anche quello di coloro che partecipano dagli spalti, degli stadi come degli schermi. «Permettere agli atleti disabili di raggiungere l’eccellenza sportiva ispirando e smuovendo il mondo», così recita la vision del Comitato Paralimpico Internazionale. Ispirare e smuovere: movimenti che simboleggiano il guizzo di resilienza dell’animo umano, lo spasmo di coraggio e di forza che serve a rimettere in piedi la vita lì dove ci sarebbero sufficienti ragioni per fermarsi a piangere sulle macerie. Come ha detto Mattei, presidente del team paralimpico di Athletica Vaticana, «vedere qualcuno riuscire a saltare 2 metri con una gamba sola, quanto può essere di incoraggiamento nella vita? Se si riesce nello sport, figuriamoci a scuola o in ufficio». Per questo ogni medaglia si sente un po’ propria, premio per le mille lotte invisibili di ogni giorno.

Ma le Paralimpiadi hanno la capacità di mostrare anche altro. Come il teatro: le maschere di scena smascherano la vita di tutti i giorni. Il dramma della tragedia ci tocca perché costringe a vedere il tragico che la realtà, già di suo, fa accadere; solo che si può guardare altrove, quando questo non tocca direttamente la propria pelle e i suoi dintorni affettivi. Le Paralimpiadi fanno gustare il riscatto, fanno brillare per pochi minuti il successo commovente di chi ce l’ha fatta. Lasciano però nell’ombra la lotta che vi ha portato. E i numerosi drammi che non hanno l’happy end. Si vede un minuto di paradiso, rimangono nascosti gli anni di risalita dall’inferno. I giorni e i gesti quotidiani misurati in lacrime, solitudini e sconfitte. E restano invisibili pure coloro avrebbero avuto bisogno di qualcosa in più per poter galleggiare nel mare delle loro tragedie. Forse allora, le storie di questi atleti hanno il diritto di commuoverci solo se poi diamo ad esse il permesso di com-muoverci, di muoverci-insieme-a-loro e alle loro battaglie quotidiane. L’emozione che ci regalano, quella della catarsi, di un incoraggiamento per le nostre piccole e meno piccole battaglie di sempre, è un privilegio che siamo chiamati a restituire, attraverso la moneta della vicinanza e dell’attenzione. Rimane solo uno spettacolo, se non ci muove.

Le Paralimpiadi sono l’epopea patinata che ci restituisce, di riflesso, il dramma della disabilità ordinaria, nel suo lato meno poetico. E la nostra responsabilità di fronte a esso. Ci fanno sognare come potrebbe essere il tragico di tanti, se rimanessimo sintonizzati sulle loro vite con il livello di attese e di attenzione di queste due settimane. Ci ricorda che, una volta che abbiamo visto, non possiamo fingere che il dramma degli altri non ci riguardi.

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