Per la ricostruzione
non si aspetti troppo
La lezione dal passato

Nelle guerre del ’900 morte e distruzione procedevano di pari passo. Il calvario si chiudeva con la pace. Ricominciava allora la vita e con essa la ricostruzione. Anche con il coronavirus si ripete approssimativamente lo stesso schema. Con alcune significative differenze, però, che non vanno sottovalutate.

Primo: il paesaggio spettrale delle nostre città, lacerato solo a intermittenza dalle sirene delle autoambulanze, mette in ombra il dramma che si consuma, nel silenzio, nell’isolamento, nell’abbandono forzato delle vittime da parte delle loro famiglie.

Secondo: mentre dei decessi causati dal coronavirus si coglie a pieno l’enormità della tragedia in atto al contrario, la percezione dell’erosione dell’apparato produttivo e dei posti lavoro è attutita. Il rischio che ai morti di oggi per l’epidemia si debbano domani assommare i morti per la carestia è in agguato. Qualche avvisaglia delle pesanti ricadute sociali causate dal blocco sanitario si può cogliere negli assalti ai supermercati verificatisi in qualche città del Sud.

Terzo: per la ricostruzione non si può aspettare la fine dell’emergenza sanitaria, che - ormai è chiaro – si prolungherà per molti mesi ancora. Ogni settimana di chiusura degli impianti produttivi costa la perdita di circa 10 miliardi alla settimana, senza contare la decimazione inflitta alle nostre filiere imprenditoriali.

Il riferimento alla ricostruzione intrapresa all’indomani della Seconda guerra mondiale, che circola in questi giorni, può essere utile per dare la scossa morale a prendere lezione dai giovani del 1945. Rischia, però, di ingenerare gravi malintesi e false aspettative. È bene perciò metterne in luce le differenze. La pronta rinascita dell’Italia postbellica, che creò le premesse del prodigioso «miracolo economico» degli anni ’50, non fu un pranzo di gala. Fu il risultato dello slancio vitale e dello spirito di sacrificio di italiani cresciuti a polenta e minestra, che si lanciarono al lavoro, un lavoro che non conosceva né orari né pause. Gli italiani di oggi, figli della società del benessere saranno disposti e capaci di replicare quel miracolo? L’Italia di allora beneficiò di un ciclo espansivo unico nella storia del capitalismo, che vide il reddito nazionale crescere in tutto l’Occidente per un intero quarto di secolo al ritmo del 5-6% annuo.

Locomotiva di quella portentosa corsa alla crescita furono gli Stati Uniti. Erano usciti dalla Guerra con un apparato industriale efficientissimo e una disponibilità finanziaria quasi senza limiti. In secondo luogo, ammaestrati dal disastro procurato alla fine della prima guerra mondiale dalla loro sconsiderata scelta all’isolazionismo, si mostrarono pronti a promuovere l’apertura dei mercati e sostegno ai Paesi indebitati. C’è in giro un’altra potenza economica (l’Ue?) disponibile a replicare l’esempio di un sostanzioso piano Marshall, capace di sostenere una vigorosa ripresa?

Nelle classi dirigenti europee postbelliche maturò la consapevolezza che solo con la creazione di un’Europa integrata e, prima o poi, unita si sarebbe invertita la direzione, aprendo prospettive di pace, di sviluppo economico e di democrazia. Ultima domanda: è compatibile una pronta, celere, robusta ricostruzione con la spinta a fare ognuno da sé che sembra dominare in Europa?

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