Pnrr, l’Europa e il futuro dell’Emilia Romagna

ITALIA. La Camera ha votato la fiducia al provvedimento governativo che riguarda la pubblica amministrazione e che contiene la discussa esclusione delle spese per il Pnrr dal cosiddetto «controllo concomitante» da parte della Corte dei Conti.

Ora toccherà al Senato confermare in via definitiva la decisione di Palazzo Chigi. Che, pur essendo il seguito di orientamenti già espressi ai tempi dei governi Conte e Draghi, ha un potente valore dimostrativo e suona come una sfida del centrodestra all’alta burocrazia dello Stato. La cosa ricorda per certi versi ciò che, malauguratamente per lui, fece Renzi agli inizi del suo governo (quando escluse i consiglieri di Stato dai ruoli di capo di gabinetto dei ministri e chiamò a palazzo Chigi la comandante dei vigili urbani di Firenze) e che è in ogni caso cominciata in questa legislatura quando il ministro Fitto smantellò la struttura per il Pnrr messa in piedi da Draghi al Mef e trasportò tutto tra le mura della presidenza del Consiglio. Molti attribuiscono proprio a quell’«esproprio» il ritardo con cui il governo sta andando avanti sul Piano (tra l’altro, siamo in attesa da febbraio della terza rata di 19 miliardi che Bruxelles non ha ancora deciso di conferirci) ed è presumibile che la decisione di escludere la Corte dei Conti dalla «cogestione» della spesa dei fondi europei verrà presto considerata una causa di fallimento di quello che era stato annunciato come un nuovo Piano Marshall per la rinascita dell’Italia.

Se è vero quel che si dice, e cioè che Meloni e i suoi avrebbero intenzione di essere più aggressivi verso le burocrazie italiana ed europea in vista delle elezioni della prossima primavera per il Parlamento di Strasburgo, si sarà sicuramente valutata la rischiosità di una simile decisione: quanto a Bruxelles, lassù sono ancora in attesa che l’Italia si decida a siglare la riforma del Mes (siamo gli unici a non averlo fatto), sono impazienti e preoccupati sulle spese del Pnrr e non mancano di avvertirci che il «nuovo» piano di Stabilità post Covid non sarà affatto clemente con i Paesi più indebitati dell’Unione, a cominciare ovviamente dal nostro. Sono partite gigantesche che il governo deve affrontare e non può farlo senza il sostegno degli alti burocrati di casa nostra, quelli che mantengono quotidianamente i rapporti con i loro colleghi della Commissione e sono demandati alla soluzione di problemi complessi. Tutto da dimostrare che una linea con l’Europa meno dialogante di quella seguita da Meloni dalla nascita del governo («Si devono accorgere che non siamo dei marziani») sia elettoralmente pagante.

Lo stesso calcolo lo si deve fare con l’Emilia Romagna alluvionata, anch’essa in procinto di rinnovare l’anno prossimo i vertici della Regione, oggi governata da Stefano Bonaccini. Ieri, alla riunione con gli enti locali investiti dall’emergenza, Meloni ha rifiutato di indicare il nome del commissario alla ricostruzione e ha annunciato che sarà il ministro Musumeci a coordinare un tavolo permanente di collaborazione con i sindaci e gli assessori regionali. Ma tutto questo ha provocato sia la reazione degli emiliani-romagnoli (che chiedono che sia nominato Bonaccini, come avvenne per il terremoto, e anche subito) e l’arrabbiatura di Salvini che non sapeva nulla della scelta di Musumeci. Ma molto di quel che accade su questo tavolo si spiega proprio con le elezioni del 2024: a Palazzo Chigi non vogliono che sia Bonaccini a gestire i miliardi della ricostruzione. Oltretutto quei fondi sarebbero inferiori alle promesse: circostanza questa che potrebbe mettere a rischio proprio il tentativo di Fratelli d’Italia di conquistare per un proprio esponente l’ultima regione «rossa». Salvini ci provò una volta e gli andò male, ora a Meloni serve quella vittoria per dimostrare una volta per tutte che nella coalizione il bastone del comando è saldamente nelle sue mani.

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