Politica dei selfie
e risposte mancanti

Basta un selfie per accorciare le distanze. Un post nel mondo virtuale dei social per diventare più reali della realtà, andare contro le élite (o presunte tali) a colpi di piatti di pasta, bicchieri di vino e cartoni di pizza. Come uno di voi, di noi, senza mediazioni di sorta: su Facebook, Instagram e Twitter alla stregua di un signor Rossi qualsiasi che cerca il suo quarto d’ora di celebrità di warholiana memoria. Questo è il messaggio che - con una certa qual bravura, va detto - Matteo Salvini e il suo staff stanno facendo passare da mesi.

Una strategia virtuale che prepara il terreno per il reale. Sabato il leader leghista era a Bergamo per seguire il Milan, del quale è arcitifoso. Tempo 5 minuti e ha lasciato lo skybox vip per avvicinarsi come un tifoso qualsiasi alla balaustra: a debita distanza, solo un uomo della scorta in borghese. In mezzo ai tifosi atalantini non ce n’è stato uno che abbia accennato ad uno sfottò, anzi: richieste di selfie in quantità industriale, sorrisi e pacche sulle spalle. All’intervallo ha concesso il bis, con esiti analoghi, nonostante il pubblico fosse nero per la rete del pari appena incassata. Un consenso di popolo oggettivamente mai visto.

Un notabile Dc di lungo corso raccontava che quando la sua auto era in prossimità del luogo dove era atteso, faceva spegnere le sirene perché considerate un’insopportabile ostentazione del potere. Salvini ha saltato a piè pari questo passaggio, riducendo le distanze al minimo storico, cavalcando il demone della disintermediazione, dando risposte (non sempre e necessariamente giuste) a chi le cerca nel mare magnum della rete, inseguendo una verità a portata di clic. Più spesso una conferma alle proprie idee che un’occasione di confronto con quelle altrui. Ma è un male dei tempi e non una prerogativa salviniana.

Se il massimo del populismo berlusconiano è stato il predellino di San Babila per lanciare il Pdl, Salvini è andato da subito oltre. Anche più di un Bossi instancabile nel firmare autografi e scattare foto per ore dopo ogni festa. Felpa d’ordinanza (chi non ne ha mai indossata una?), smartphone sempre in mano, sorriso adeguato e clic sempre caldo: l’empatia è assicurata, con tanti saluti alle grisaglie d’ordinanza. Per tacer dei doppiopetti da cumenda del Cavaliere.

Anche la scelta dei messaggi è mirata, con un uso sistematico del «noi» che presuppone sempre un «loro» in antitesi. Il Pd, gli extracomunitari, i buonisti (un must), le cooperative, i cattocomunisti, il nemico del giorno: concetti semplici e dalla presa sicura e il consenso lo dimostra. Una politica spesso divisoria che più che dare risposte reali sembra però puntare ancora molto sull’immagine: quella del centrodestra berlusconiano era patinata, a cominciare dalla famosa calza del messaggio della discesa in campo del lontano 1994. Quella di Salvini è ruspante, popolare e popolana, a tratti ruffiana, e sta facendo allargare (esplodere) i confini storici del Carroccio verso un centrodestra nazionalista e sovranista.

Una risposta alla mano, senza intermediazioni: una vicinanza quasi ostentata «che lo fa sentire uno di noi» come si sente dire spesso. La ricetta di un’apparente nuova classe dirigente che però spesso segue le medesime logiche, a tratti spartitorie, di quelle precedenti. Un do ut des che ha toccato vette di eccellenza nel recente voto on line pentastellato che ha salvato Salvini sul caso Diciotti, sulle prossime nomine Inps e nel sostanziale stallo sulla Tav.

E sullo sfondo ci sono i conti pubblici che tornano sempre di meno, cambiali come l’autonomia e un ruolo in Europa da ripensare. Con il dubbio che, al di là del consenso, selfie e post alla fine potrebbero non bastare più, e la politica a colpi di clic e social pure. Soprattutto se e quando si tratterà di dare risposte vere e chiedere sacrifici a tutti.

© RIPRODUZIONE RISERVATA