Primarie Pd, serve
un capo su misura

Fra l’uno-due del voto regionale in Abruzzo e Sardegna, le primarie del Pd di oggi e le elezioni europee di maggio c’è un nesso logico, una continuità. Resta da vedere se la prossima classe dirigente dem intende cogliere l’occasione per salire sull’ultimo treno disponibile, una volta dimesso il partito dal lettino della clinica. Le urne delle due Regioni, sostanzialmente confermate dal sondaggio Ipsos pubblicato ieri dal «Corriere» e nel dar conto del passo del gambero grillino, dicono che c’è più di un terzo dell’elettorato, il 30%, che non si ritrova nell’ordine felpastellato e che si riconosce nelle ragioni dell’area di un centrosinistra allargato: Pd, amministratori locali di vario genere, liste civiche, associazionismo territoriale.

Più o meno è una quota di consenso simile a quella del primo Veltroni, quando il Pd si riteneva autosufficiente (la vocazione maggioritaria) e ora non lo è più. Un pezzo di popolo tramortito, ma non rassegnato all’irrilevanza. Si può discutere se questa prima uscita dalla rianimazione sia per demerito dei nuovi governanti o merito dei democratici. Il livello del pentimento nel bacino grillino si sta comunque alzando e – così narrano le cronache – anche il bel mondo romano che aveva sostenuto la Raggi sta tornando alla casa madre.

Per contro sono scesi in campo pure i padri nobili della stagione aurea del centrosinistra, come Prodi e Veltroni: quasi un serrare le fila dinanzi all’urgenza del momento. Tuttavia questo timido risveglio è avvenuto nonostante l’infausta diagnosi legata ad una prematura dipartita dem (un tantino esagerata la morte del Pd, ha sussurrato Gentiloni) e nonostante il pivot del centrosinistra sia rimasto per mesi in una specie di limbo, sospeso nel vuoto di una transizione con leader provvisori. Un congresso senza fine: non s’è mai visto in alcun Paese un’assise durata da novembre a marzo, dove peraltro il nocciolo duro, la visione del mondo (il contrasto al populismo) era dato per acquisito. Le due Regionali hanno anche chiarito l’azzardo non solitario dei 5 Stelle, e che aveva tentato pure il Renzi iniziale, cioè il superamento della contesa politica fra destra e sinistra, oltre i vecchi steccati: quella divisione, invece, resta come primaria identificazione dell’elettore, al di là della tecnica del governare. In definitiva, esiste un’area di centrosinistra, pur ristretta, e comincia a non essere più vero che Lega e 5S, un po’ di governo e un po’ di lotta, fanno la sintesi di tutto lo spettro politico. Sempre che il Pd voglia investire su questo insperato soccorso: ancora insufficiente, però una base di ri-partenza, magari mettendo insieme, per le Europee, quei mondi che vanno da Calenda a Pisapia.

Un nuovo ciclo che va oltre anche le più recenti esperienze, semplicemente perché il mondo attorno è cambiato e ogni stagione deve trovare il leader appropriato e le parole giuste. La strada per recuperare la connessione sentimentale con l’opinione pubblica è solo all’inizio e l’assenza di pathos in queste primarie non aiuta a ritrovare i sapori affettivi della riscossa emotiva. Il nuovo segretario, a differenza degli standard delle altre primarie, non sarà un leader indiscusso e non diventerà automaticamente premier: un capo su misura di tempi avari, al ribasso. Andrà calibrato sulla capacità di fare squadra, di togliere il partito dalle secche dell’ultima spiaggia e di bandire le beghe passatiste: quelle spinte e controspinte divisive, di cui ha parlato Martina, insomma l’attitudine a farsi del male. Molto dipenderà dall’impatto delle scelte discusse del governo e di quel che succede nella maggioranza, dove Salvini, il ministro tuttofare a reti unificate, può contare finora sul partner junior ideale, che tutti vorrebbero e che non capita ad ogni giro di valzer. Finché dura.

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