Sacrificata la crescita per arginare l’inflazione

Come ampiamente atteso dai mercati e dagli osservatori, la Bce ha aumentato i tassi di interesse di riferimento di 0,75 punti percentuali. Non era altrettanto scontato che avrebbe annunciato anche una serie di aumenti nelle prossime riunioni del Consiglio direttivo, previste ogni 6 settimane, da 2 a 5 volte. Naturalmente le future decisioni saranno assunte alla luce dei dati disponibili a quel momento, ma l’indicazione è netta: un contrasto fortissimo alle aspettative di inflazione. Perché l’inflazione si alimenta anche con le aspettative.

La decisione discende dal fatto che l’inflazione europea ha superato il 9% e secondo le stime della Banca Centrale scenderà al 5% nel 2023 e solo nel 2024 dovrebbe riportarsi al 2%. Questo, lo ricordiamo, è l’obiettivo di medio periodo, il livello considerato ottimale per la crescita e la stabilità dell’economia.

Già, la crescita. È lei la vittima di questa politica, perché evidentemente un rialzo dei tassi così netto, anche se partito da livelli bassissimi, è un macigno sugli investimenti, sui consumi e quindi sullo sviluppo. Sappiamo che i tassi di interesse della Bce si applicano nei confronti delle banche e quindi non sono quelli che pagano le famiglie e le imprese quando richiedono prestiti. Però evidentemente e inevitabilmente i tassi di riferimento (una volta si chiamavano ufficiali) si trasmettono ai tassi di mercato, quelli effettivamente applicati ai prestiti. D’altro canto, questo è proprio lo scopo della politica monetaria: influenzare le variabili dell’economia reale agendo sulle scelte degli operatori, ossia rendendo più o meno conveniente prendere a prestito per incentivare o disincentivare i consumi e gli investimenti. E in questo caso il risultato sarà proprio quello di raffreddare la domanda e quindi di rallentare la crescita.

Si poteva fare diversamente? Il dilemma inflazione o crescita è di difficile soluzione. Anche perché l’inflazione è una delle cause di rallentamento della crescita in termini reali, cioè al netto del gonfiamento artificiale dei prezzi. Oggi la Bce sembra temere più l’inflazione della recessione e quindi la attacca, come detto, agendo soprattutto sulle aspettative, cioè comunicando ai mercati che è pronta a contrastare l’andamento dei prezzi in modo assolutamente deciso. Dove sia il limite di questo intervento, cioè quanto potrebbero salire i tassi, Lagarde non lo dice. Durante la conferenza stampa, rispondendo a una domanda, ha citato l’ex presidente della Fed Paul Volker dicendo che l’azione della banca centrale «è più arte che scienza». Sembra di poter tradurre questa citazione, in modo forse troppo prosaico, come una ammissione di incertezza, anche perché viene insieme a indicazioni sul numero e l’entità dei prossimi aumenti dei tassi e alla precisazione: «Agiremo alla luce dei dati», che non danno la sensazione di un pieno controllo della situazione.

Il compito della presidente Lagarde è forse ancor più difficile di quello del suo predecessore Mario Draghi. Anche allora i tempi erano drammatici, ma Draghi poté usare l’acceleratore, spingere sulla creazione di moneta (cosa che poi Lagarde ha fatto molto più di lui). Oggi invece bisogna agire in senso contrario, aumentando il costo del denaro, cercando di non inasprire le condizioni complessive di liquidità del sistema. E questo significa mettere in difficoltà le famiglie e, soprattutto, le imprese e rendere più difficile e oneroso il finanziamento del debito pubblico degli Stati dell’Unione monetaria. Ma d’altra parte, come può dirvi ogni buon pilota di automobile, saper guidare è saper frenare.

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