Salva stati, ma Conte
è stato poco chiaro

Attaccare l’opposizione per nascondere le divisioni della maggioranza. Giuseppe Conte ha applicato una vecchia regola della tattica politica nel suo discorso in Parlamento sul Mes, il Meccanismo europeo di salvataggio, il cosiddetto «Salva Stati». Il presidente del Consiglio è andato a testa bassa contro Salvini e Meloni accusandoli di aver criticato il Trattato falsificando la realtà per puri fini elettoralistici, di aver detto vere e proprie bugie, di aver creato allarmismo tra i risparmiatori, di aver infangato il capo del Governo accusandolo di «alto tradimento» senza rendersi conto del danno che stavano facendo alle istituzioni. E poi, elemento fondamentale, Conte ha accusato la Lega di essere stata perfettamente aggiornata delle decisioni sul Mes sin dall’inizio delle trattative che trovarono un punto di caduta in giugno, quando ancora era in piedi il governo gialloverde, e di non aver mai sollevato obiezioni, forse – ha insinuato perfidamente il premier in veste di professore verso un allievo fuori corso – «perché Salvini ha una nota resistenza a studiare le carte». Ma qui, per quanto indirettamente, Conte ha dovuto portare la sua reprimenda anche all’interno delle linee governative: se «nessun ministro» ha mai obiettato sulle trattative che Tria stava conducendo a Bruxelles, vuol dire che anche Di Maio, come Salvini, ora per opportunismo sta facendo una giravolta nel criticare una decisione che ha condiviso.

Naturalmente Conte questo non lo ha detto esplicitamente, ma la sostanza era chiarissima. Tanto è vero che alla fine del suo discorso il presidente del Consiglio ha stretto vigorosamente la mano al ministro dell’Economia Gualtieri, seduto alla sua destra, e non si è nemmeno voltato verso sinistra dove sedeva Luigi Di Maio. Il quale, con la faccia imbronciata dei suoi momenti no, è rimasto ostentatamente a braccia conserte senza applaudire, senza cercare né la mano né lo sguardo di chi ha indicato a suo tempo come inquilino di Palazzo Chigi. Sembra passato un secolo da quando alla sua prima seduta d’aula, Conte chiedeva sottovoce a Di Maio il permesso di leggere alcuni passi fuori del discorso che gli era stato preparato. Adesso l’avvocato del popolo si prende parecchie libertà: forse perché sa che questo è l’unico modo per sopravvivere alla bizzarra circostanza politica in cui si trova.

Dunque per Conte né Di Maio né Salvini possono recriminare. Eppure lo stesso suo discorso presenta delle crepe, come quando assicura che nulla è stato finora sottoscritto, nessun impegno formale è stato assunto. Peccato che da Bruxelles si faccia sapere che non è così, e che il Trattato, giunti a questo punto, «non è emendabile» (le stesse parole usate la settimana scorsa in Commissione dal ministro Gualtieri con involontaria gaffe). E che al massimo si può pensare ad un rinvio della decisione di uno o due mesi. Quindi Conte non può promettere modifiche che non otterrà; può invece provare a impuntarsi sulle altre misure del «pacchetto», a cominciare dalle norme sull’unione bancaria che sono svantaggiose per l’Italia, sperando di ottenere qualche concessione almeno su quel testo (che peraltro non piace anche ad altri Paesi).

Quindi come si vede, in questa faccenda del Mes ci sono moltissime ambiguità tattiche. Chi sapeva e non ha obiettato, (M5S e Lega) oggi protesta. Chi allora criticava (Pd) oggi si schiera decisamente a favore (non sarà un caso che economisti di area dem come il prof. Galli e persino il governatore di Bankitalia abbiano dovuto frettolosamente ritirare le critiche espresse a suo tempo). Chi oggi dice di non aver nascosto nulla (Conte) in realtà non è mai stato chiaro in pubblico né in Parlamento. L’unica che può vantare una linea di condotta univoca è Meloni: contraria era e contraria è rimasta.

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