Sanità d’urgenza
ma il senso dov’è?

Generalmente, quando in una struttura organizzativa si introducono significative novità sul piano della gestione operativa, ci si aspetta che il modello proposto sia stato ampiamente testato non solo sulla carta, ma anche – come usano dire i ricercatori – «in vivo». Ma ad una prima lettura delle «Linee di indirizzo nazionali sul triage intraospedaliero, sull’osservazione breve intensiva e quelle per lo sviluppo del Piano di gestione del sovraffollamento in P. S.» - che rivoluzionano gli accessi ai Pronto soccorso e il lavoro dei suoi operatori – sembrerebbe che la «sperimentazione clinica» sia stata messa da parte.

Intendiamoci, le 104 pagine che compongono il documento sono un distillato di buone intenzioni, cose di cui però, come si suol dire, è lastricata la strada per l’inferno. Dal punto di vista della teoria e della «summa» della miglior letteratura internazionale sull’argomento, il documento della Conferenza Stato – Regioni non fa una piega, ma sembra scritto da chi in un ospedale, o anche solo nella sala d’attesa di un Pronto Soccorso, non ci abbia mai messo piede. Già in premessa stupisce che le cause degli assalti che quotidianamente il popolo italico (bergamasco compreso) riserva ai Ps siano attribuite – testualmente - «all’insorgenza di nuovi bisogni assistenziali, al progressivo invecchiamento della popolazione, all’aumento del numero di pazienti complessi, all’avvento di nuove tecnologie di diagnosi e cura», dimenticandosi clamorosamente che la ragione principale degli accessi ai Pronto soccorso degli ospedali non è altro che una scarsa organizzazione della medicina del territorio, un problema che nemmeno Regione Lombardia – tradizionalmente più attenta al mondo sanitario di molte altre regioni e dello stesso Governo – è ancora riuscito a risolvere.

Se oggi, sempre più spesso, ci si deve ammalare «su appuntamento» per riuscire a vedere un medico senza dover necessariamente andare in ospedale vuol dire, forse, che c’è ancora qualcosa che non va. Quanto all’ex Guardia medica, «provare per credere», come diceva quel tale della reclame. Se non si pone mano seriamente alla medicina del territorio e alla continuità assistenziale - rivedendo, perché no, anche alcuni servizi ospedalieri che potrebbero essere «girati» ai medici di famiglia - , gli accessi inappropriati ai Pronto soccorso saranno in continua crescita, con tutte le conseguenze (negative) del caso, le stesse che il documento rileva - «ritardo di accesso alle cure, dallo stazionamento dei pazienti in attesa di ricovero e, in generale, dal sovraffollamento nei Servizi di Ps» - ma «taroccandone» l’origine.

Tra le cose che stupiscono di più nel documento, le tabelle con il tempo massimo di attesa per ciascuno dei nuovi codici di priorità per accedere al Ps. Fatto salvo l’accesso immediato per i codici rossi, i 15 minuti per quelli arancioni e i 60 minuti per quelli azzurri (colorazioni che l’ospedale Papa Giovanni di Bergamo utilizza dallo scorso anno), lasciano senza parole le 2 ore per i codici verde e le 4 per i codici bianchi. Intendiamoci, sarebbe bellissimo riuscire a garantire tempi massimi di attesa come questi, ma chiunque abbia anche solo una pur vaga idea di cosa sia un Pronto Soccorso sa benissimo che stiamo parlando di un’utopia, di un miraggio, di un’illusione. A prima vista, il documento non sembrerebbe indicare alcuna conseguenza per quegli ospedali che non riusciranno a dare una simile tempestività al termine dei 18 mesi indicati per mettersi nelle condizioni di garantirle, e per fortuna. Ma anche solo l’idea (tutta pentastellata, pare di capire) di dare in pasto agli utenti dei Ps una tabella siffatta, che potrà essere «brandita» da chi intasa senza titolo e senza ragione i Pronto soccorso rivendicando nei tempi stabiliti prestazioni non dovute, è per lo meno bizzarra, tipica di un populismo che affonda le sue radici in una profonda ignoranza e incompetenza.

Ma andando oltre, tutto il documento della Conferenza Stato – Regioni sembra dimenticarsi di una questione che giace sul tavolo della sanità italiana ormai da molto tempo, nota a tutti come carenza di personale, medico e infermieristico. Non solo mancano medici e infermieri (ormai li «importiamo» da mezzo mondo, non sempre con grandi risultati), ma, anche avendone, non si possono assumere, perché le piante organiche - causa mancanza di soldi nelle casse dello Stato - non possono essere rimpolpate. Non solo. Ci si è dimenticati che ormai da qualche anno, una direttiva europea stabilisce rigidissimi tempi di lavoro per il personale della sanità, con l’obbligo di pause certe e ben definite tra un turno di lavoro e l’altro, principio sacrosanto, ma che ha ulteriormente messo in crisi l’organizzazione di tutti gli ospedali, nessuno escluso. Di tutto ciò nulla traspare nel documento in questione, che invece abbonda di figure professionali sparse qua e là, in questo o quel servizio, come segnalini del «Monopoly» piazzati sul quadrante di gioco.

La verità è che il sistema sanitario universalistico - quello che su cui oggi poggia la sanità italiana - sembra avere le ore contate, proprio perché è sempre più difficile riuscire a garantire le risorse necessarie a mantenerlo. A meno che, non si decida di far mettere mano al portafogli. A chi? Tanto per cominciare ai codici bianchi (e magari anche a quelli verdi). Solo per accedere al triage si potrebbe far pagare 50 euro: se sei davvero malato, alla fine della visita i 50 euro ti tornano in tasca, ma se sei lì a fare il furbetto del quartierino, alla fine del giro, se servono, ne aggiungi altri 50. Tempo un mese, si sistemerebbero molte cose. Certo, oggi è «reato» anche solo pensarlo, a meno che non si risolva una volta per tutte il problema della medicina del territorio e della continuità assistenziale. Allora le cose cambierebbero. Ma, anche in questo caso, servono molti soldi. Che non ci sono. Buona salute a tutti.

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