Se in Ucraina i bambini muoiono per lo stress

Esteri. Dovrebbe essere l’età del gioco e dei primi rudimenti a scuola, di una spensieratezza che poi la vita ridimensionerà. E invece a sei anni in Ucraina si muore per lo stress prolungato provocato dalla guerra. Un orrore che ha colpito la piccola Elya: negli ultimi 11 mesi ha vissuto ad Avdiivka, nel Donetsk a cinque chilometri dalla linea del fronte.

Si è nascosta per la maggior parte del tempo nel seminterrato della casa dove abitava con la sua famiglia, per paura dei raid russi. È morta per un attacco di cuore. Fra le braccia un animale di peluche rosa, il suo preferito. Elya era probabilmente più fragile di altri, di sicuro è stata esposta ad una pressione psicologica intensissima e innaturale perché a quell’età il corpo e la mente non sono strutturati per resistere a un terrore talvolta troppo grande anche per gli adulti. Infatti nelle cittadine dove gli occupanti hanno commesso eccidi perché erano indifese - da Bucha a Irpin, da Hostomel a Lyman - sono stati avviati progetti di sostegno psicologico per i sopravvissuti che sono segnati da ferite non visibili ma non meno gravi di quelle fisiche: depressioni maggiori che possono portare al suicidio, crisi di panico e stati di ansia gravi.

La regione del Donetsk si trova lungo la prima linea di quei 900 chilometri dove il conflitto è ferocissimo, nel Donbass. Bakhmut e Soledar sono nomi entrati nella cronaca, due cittadine devastate e svuotate dei loro abitanti (ma restano gruppi sparuti a difendere i propri poveri beni e anziani che ritengono di non avere nulla da perdere ormai) oggetto di furiosi attacchi russi e di una difesa indomita ucraina. Un conflitto di trincea, al netto delle tecnologie simile ai combattimenti della Prima guerra mondiale. Ogni giorno l’esercito del Cremlino spara tra i 4 e i 6mila colpi di artiglieria, fra i 2 e i 3mila quello di Kiev. Ma è una guerra anche di scontri negli edifici diroccati, dove i militari degli opposti schieramenti si confrontano spesso a pochi metri di distanza. Come si può sopravvivere a lungo negli scantinati in questo inferno in terra, senza conseguenze sul fisico e sulla mente? Come ha potuto il terrore non spegnere il cuore fragile di una piccola come Elya?

Ma c’è altro. I missili a lunga gittata e i droni esplosivi di fabbricazione iraniana che ogni giorno Mosca lancia su città e villaggi ucraini, seminando altra paura, morte e distruzione, hanno compromesso la rete elettrica. I bambini non solo stanno affrontando il freddo estremo, con temperature fino a meno 20 gradi, ma non possono neppure portare avanti le attività di apprendimento online, che per tanti rappresentano l’unico accesso all’istruzione perché molte scuole sono state danneggiate o distrutte dai raid. Inoltre «le strutture sanitarie potrebbero non poter più offrire i servizi di base e il malfunzionamento dei sistemi idrici aumenta il rischio già estremamente alto di polmonite, influenza stagionale, malattie legate all’acqua e Covid» denuncia l’Unicef. Secondo l’agenzia dell’Onu, sette milioni di bambini ucraini sono a rischio, anche di ipotermia. Una condizione tremenda perché disumana, con effetti nel medio e lungo periodo pure sulla salute mentale dei piccoli. E degli adulti, altri milioni di persone. Dovrebbe essere ormai chiaro anche ai più riluttanti che l’invasione russa ha un obiettivo: annettersi territori, per altro già avvenuta formalmente nel settembre scorso quando il Cremlino ha dichiarato di sua proprietà quattro regioni del Sud ucraino, come un esproprio di terra privato e non di case abitate, sradicamento di comunità, di appartenenze e di biografie. Non per denazificare (ignobile truffa) uno Stato che non è nazista, ma per deucrainizzarlo, come è invece indicato nei testi di riferimento degli ultranazionalisti della cerchia di Putin. Un’ideologia mortifera che non risparmia nemmeno i bambini, neppure la piccola Elya, piccolo, grande cuore.

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