Servire lo Stato
tra rischi e oblio

Non è vero che in Italia «tutto va male» come dice una vulgata radicata e pericolosa. Abbiamo un patrimonio di arte e di cultura che il mondo ci invidia ma soprattutto molte persone dotate di straordinarie qualità professionali e umane, nel privato e nel pubblico, che hanno arricchito il Paese di imprese, scuole, ospedali e istituzioni d’eccellenza. Ce ne accorgiamo quando le cose vanno veramente male, come la pandemia di Covid ci sta insegnando: medici e infermieri prima considerati presenza ordinaria, sono addirittura diventati eroi per il coraggio e l’abnegazione nel curare i malati. Anche all’estero l’immagine dell’Italia è migliore di come la pensiamo, lontana dallo stereotipito superficiale di «mafia, pizza e mandolino». I tratti distintivi di molti nostri connazionali espatriati sono l’umanità e la passione. Apparteneva a questa categoria l’ambasciatore in Congo Luca Attanasio (43 anni) ucciso lunedì mattina in un blitz nell’Est del Paese africano insieme alla sua guardia, il carabiniere Vittorio Iacovacci (30 anni, sarebbe rientrato in Italia a giorni in vista delle nozze a giugno) e all’autista locale Mustapha Milambo.

La delegazione si stava spostando da Goma a Rutshuru per ispezionare un progetto del Programma alimentare mondiale. Il diplomatico era una bella persona, come si evince pure da alcune foto, con un sorriso aperto, empatico e socievole fra gruppi di congolesi. «È andato via un raggio di sole» ha detto il papà Salvatore. Quel raggio non si limitava a svolgere la professione secondo le norme che la regolano. Aiutava chi poteva e aveva le idee chiare sulla situazione africana e sulle priorità per uscire da una condizione di minorità globale, avendo lavorato precedentemente in Marocco (dove conobbe la futura moglie) e in Nigeria: più cooperazione allo sviluppo e nel settore della sicurezza da un lato, ma anche valorizzazione delle tante opportunità che possono emergere da un più solido rapporto con le economie emergenti del continente. Un servitore dello Stato, come il carabiniere Iacovacci e i 7.488 militari italiani impegnati nelle missioni internazionali, soprattutto in Libano, Iraq e Afghanistan: spedizioni di pace perché l’obiettivo sarebbe far cessare o impedire il risorgere di conflitti, ma spesso invece sono rischiose missioni di guerra.

La Farnesina è una grande scuola di diplomazia, retaggio della Prima Repubblica. Ha prodotto fior di ambasciatori e di rapporti nel mondo. Nel 1973 la nostra rappresentanza diplomatica in Cile salvò centinaia di persone dopo il golpe di Pinochet. L’Italia è stata fra i primi membri della comunità internazionale ad aver stabilito relazioni con la Bosnia aprendo l’ambasciata di Sarajevo il 6 novembre 1996 ma essendo già presente nel Paese in guerra dall’aprile 1994 con una Delegazione speciale. È anche l’unico Stato ad aver tenuta aperta l’ambasciata in Libia nei momenti peggiori del conflitto, sfiorata più volte dai missili del generale Khalifa Haftar, all’assalto di Tripoli. L’11 novembre scorso invece è stato gravemente ferito il console generale italiano Stefano Stucci: a Gedda, in Arabia Saudita, i diplomatici stranieri che partecipavano a una cerimonia nel cimitero non musulmano sono stati attaccati con una granata lanciata da un commando dello Stato islamico.

Ma la Prima Repubblica ci ha lasciato anche una buona scuola di agenti dei servizi segreti, in particolare in Medio Oriente, che in questi anni con il loro lavoro sotto traccia sono riusciti a sventare attentati o a far liberare nostri connazionali sequestrati. La loro attività preziosa per la sicurezza emerge solo quando perdono la vita. Come accadde a Nicola Calipari, già poliziotto e poi 007. Fu ucciso da soldati statunitensi il 4 marzo 2005 a un posto di blocco, mentre raggiungeva l’aeroporto di Bagdad in auto con i fari accesi per farsi identificare, nelle fasi appena successive alla liberazione della giornalista Giuliana Sgrena, de «il Manifesto». L’inchiesta sulla morte di Calipari è finita nell’oblio, senza aver individuato un responsabile.

Ma l’Italia tradizionalmente è ben rappresentata nel mondo da migliaia di missionari, volontari, cooperanti e giornalisti: tra loro ci sono state molte vittime. Sono servitori della Chiesa (i primi) e più in generale dell’umanità in Paesi in guerra o poverissimi, i cronisti testimoni di fatti che il mainstream dei grandi media non racconta. Sono tutti accomunati da coraggio, intraprendenza e vocazione. Tre qualità che fanno bene anche in Italia, soprattutto in questa tragica epoca dove però non «va tutto male».

© RIPRODUZIONE RISERVATA