Solidarietà nazionale
Ma la strada è in salita

A inizio anno, al deflagrare della pandemia siamo stati additati come gli untori d’Europa. Ci siamo poi riscattati vantando quel «modello Italia» che tutti ci invidiavano. Altri tempi. Allora il governo godeva della presunzione d’innocenza di fronte a un male non solo sconosciuto, ma anche venuto da fuori. Oggi non è più così. L’innocenza è stata persa. Sono passati sei mesi e l’Italia si ritrova sprofondata nel girone infernale dei contagi, senza che nel frattempo il governo nazionale e quelli regionali si siano preparati a fronteggiare la prevedibile seconda ondata. Pochi tamponi, pochissime nuove terapie intensive, nessun presidio medico territoriale, nessun potenziamento dei trasporti pubblici. Tutto ciò a fronte di negozianti, ristoratori, lavoratori autonomi stremati da chiusure forzate dell’attività nonché sfiduciati sulla possibilità di ricevere tempestivi e adeguati ristori dal governo.

In presenza di una crisi di tal genere, comprensibile, anzi doveroso che si invochi uno sforzo unitario per superare la drammatica prova. Mattarella ha invocato «la stessa unità del popolo italiano» che a fine guerra propiziò «la rinascita morale, civile, economica, sociale della nostra nazione». Bonaccini, presidente della Conferenza delle Regioni, ha ricordato ai colleghi che questo «è il momento della responsabilità e dell’unità». Altro pressante invito a dialogare con l’opposizione è stato rivolto da vari leader della maggioranza: da Zingaretti a Speranza. Su alcuni media è rimbalzato addirittura l’augurio che i partiti si stringano in un governo di «solidarietà nazionale», così come è stato in altre tremende emergenze del nostro Paese.

Propositi certo buoni. Se non si vuole però che restino tali, i loro proponenti devono guardare alle condizionalità che ne vincolano l’applicazione. L’esperienza ci insegna che queste sono almeno tre. Che la sfida sia delimitata. Che i partiti condividano la stessa strategia per superare la sfida incombente. Infine, che si disponga di leadership autorevoli capaci di assicurare ciascuno la tenuta del proprio partito. Nel 1945-47 il primo governo di solidarietà nazionale potè contare su figure del calibro di De Gasperi, Togliatti e Nenni. Diffusa era la consapevolezza che l’Italia non sarebbe sopravvissuta a una pace troppo punitiva e che per dar vita a una Repubblica democratica si dovesse stilare una Costituzione davvero condivisa. A un governo di unità nazionale si giunge nel 1976-79: i leader firmatari del «compromesso storico» erano figure dotate di un’autorevolezza assoluta, Berlinguer e Moro. La sfida da vincere era il terrorismo. Dc e Pci, cui stava parimenti a cuore la salvaguardia della democrazia, seppero superare i loro storici dissidi in nome di quella grande causa. Infine, un altro governo di unità nazionale, per quanto stentarello e precario, si forma nel 2011 quando l’Italia rischia di sprofondare nel baratro dell’insolvenza.

Chiediamoci ora: queste tre condizioni sono oggi rispettate? Governo e opposizione condividono la cura per far uscire l’Italia dalla pandemia e dal collasso della sua economia? Conte, Salvini e Crimi sono dei leader carismatici? È credibile che allargando una maggioranza già di per sé litigiosa a un’opposizione non propriamente concorde si superino i dissidi o non si finisca invece per ampliarli? Insomma, non ci pare per nulla agevole la strada dell’unità nazionale. Mai dire mai, però. Anche le vie più improbabili in Italia possono divenire percorribili. In questa legislatura abbiamo visto formarsi ben due «governi degli opposti»: M5S-Lega e Pd-M5S. Ai nostri eroi non manca la fantasia per inventare forme di collaborazione, solo che lo vogliano davvero.

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