Srebrenica, le ferite aperte
Nuova beffa

Ancora Srebrenica? Qualcuno potrebbe porre la domanda, convinto che l’eccidio sia ormai consegnato alla storia quando non addirittura all’oblio. La città bosniaca nel luglio 1995 per alcuni giorni fu teatro del più grave genocidio in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale: furono uccisi 8.372 civili. Eppure l’area era stata dichiarata «zona protetta» dall’Onu e per garantirne lo status fu schierato nei pressi di Srebrenica un battaglione di canadesi prima e poi di 800 caschi blu olandesi, comandati dal colonnello Ton Karremans.

Il giorno precedente l’assalto all’enclave serba, il 10 luglio, a causa dei bombardamenti centinaia di bosniaci musulmani cercarono rifugio a Potocari, a sei chilometri dalla città martire, proprio dagli olandesi, che il 12 luglio costrinsero invece i rifugiati a lasciare la caserma consegnandoli di fatto ai carnefici. «Le truppe dei Paesi Bassi hanno agito in maniera illegale nell’evacuazione delle 350 persone» stabilì poi la Corte suprema dell’Aja, sottolineando che i caschi blu non fecero il possibile per impedire che finissero nelle grinfie dei soldati serbo- bosniaci, guidati dal brutale generale Ratko Mladic: radunarono la popolazione musulmana sfollata in città da altre zone (la maggioranza dei 40 mila residenti erano serbi ortodossi) e divisero gli uomini fra i 12 e i 77 anni (più di 8 mila) da donne, anziani oltre i 77 anni e bambini (20 mila). Il primo gruppo fu sterminato a fucilate e i corpi nascosti in fosse comuni. Il secondo invece deportato verso i boschi che portano nella Bosnia musulmana, non prima che molte donne subissero stupri. L’operazione di pulizia etnica fu conclusa il 16 luglio.

Una cruda e drammatica foto simbolo di quei giorni ritrae una giovane che si è impiccata nella foresta, non riuscendo a sopportare la profonda ferita dello stupro. Ancora oggi centinaia di sopravvissuti soffrono di gravi crisi di panico, di disturbi da stress post-traumatico e di depressione, patologie non curate che lasciano segni indelebili. La terra intorno a Srebrenica continua a restituire scheletri delle vittime: all’appello mancano ancora mille persone.

Come se non bastasse, in questi giorni è arrivata una beffa, un pugno nello stomaco dei sopravvissuti: l’11 febbraio il governo olandese ha offerto un pagamento una tantum di 5 mila euro ad ogni soldato (già decorati nel 2006) del battaglione che ha prestato servizio a Srebrenica. La motivazione è che i militari hanno dovuto affrontare la «percepita mancanza di riconoscimento e apprezzamento», dopo aver «operato» in «circostanze eccezionali» in cui è stato chiesto loro «il quasi impossibile». Una decisione in contraddizione con le dimissioni, nell’aprile 2002, di un altro Esecutivo dell’Aja, a seguito dei risultati di un rapporto dell’Istituto nazionale di documentazione sulla guerra, riguardo al massacro. Nel rapporto è scritto fra l’altro: «Le considerazioni umanitarie e le ambizioni politiche hanno spinto i Paesi Bassi ad impegnarsi in una missione di pace alla base della quale vi era stata poca riflessione e che era, per le condizioni sul campo, praticamente irrealizzabile».

E, nel momento dell’attacco dei serbo-bosniaci, «il governo per non sacrificare i propri uomini, non impartì mai al proprio colonnello, Ton Karremans, l’ordine di passare all’azione per difendere i cittadini dell’enclave. Gli olandesi rimasero quindi inerti spettatori della strage». Sulla base di altri documenti resi pubblici solo recentemente, emergono gravissime responsabilità anche da parte dei Governi dell’epoca di Stati Uniti, Francia e Regno Unito e pure delle stesse Nazioni Unite, che in nome della «realpolitik» di fatto preferirono non irritare i serbo-bosniaci pur di raggiungere un accordo di pace, come avvenne puntualmente quattro mesi dopo, nel novembre 1995, nella città statunitense di Dayton, intesa che ha sancito la spartizione della Bosnia per linee etniche.

I familiari delle 8.372 vittime di Srebrenica invece non riceveranno alcun risarcimento: il Tribunale internazionale dell’Aja stabilì infatti che non può essere provata la diretta responsabilità della Serbia (la Republika Srpska di Bosnia nel luglio ’95 non era ancora riconosciuta) nel genocidio, anche se fu evidenziato che dipendevano da Belgrado il generale Ratko Mladic, che sconta l’ergastolo all’Aja perché colpevole di genocidio, persecuzione, sterminio, omicidio e trattamento disumano nell’area di Srebrenica e l’ex leader politico della Republika Srpska Radovan Karadzic per genocidio, lo stesso crimine contestato all’ex presidente della Serbia Slobodan Milosevic, morto in cella per un infarto nel 2006 durante i processi.

C’è un’altra foto simbolo del progrom di Srebrenica che fa male: ritrae il generale Mladic e il colonnello Karremans che brindano insieme alla vigilia dell’eccidio. La vicenda che abbiamo raccontato non può essere consegnata all’oblio: ci parla infatti dell’oggi, delle troppe tragedie che si consumano ancora nel mondo.

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