Statue nel mirino
Passato a rischio

Il furore iconoclasta che impazza nei quattro angoli dell’Occidente sull’onda del caso Floyd ha qualcosa di surreale. In nome della lotta al razzismo si tirano giù o si imbrattano statue che se ne stavano ignare e quiete nei centri delle città, da Edward Colston e Cristoforo Colombo negli Usa al mercante di schiavi Robert Milligan in Inghilterra, facendo di tutta un’erba un fascio, senza pochi distinguo. A Westminster hanno dovuto inscatolare il monumento a Winston Churchill, un «colonialista» senza il quale a quest’ora l’Europa sarebbe probabilmente un’enorme colonia di iloti al servizio della razza ariana, come vagheggiava Adolf Hitler. In Italia se la sono presa con la statua di Indro Montanelli, per via del suo passato coloniale e per aver impalmato durante la campagna d’Africa (1935) una ragazza abissina (si chiamava Destà) di 12 anni (o forse 14 ma le cose non cambiano di molto, il grande giornalista ha spesso cambiato versione).

Il punto però è un altro. È la logica manichea del bene e del male a guidare la mano di questi volonterosi e inquietanti talebani dell’Occidente, per nulla diversi dai guerriglieri fondamentalisti afghani che fecero saltare col tritolo le statue del Buddha di Bamyan, patrimonio mondiale dell’Unesco. Peccato che il giudizio storico non sia mai così netto: la storia non si fa col pennello cinghiale ma coi pennelli di un acquerello, è sempre più che mai sfumata, dipendente da innumerevoli variabili che comprendono il contesto, i diversi momenti della vita di un uomo, il periodo in cui sono accaduti i fatti, l’eventuale pentimento, le luci e le ombre, i buchi neri e i momenti di fulgida gloria. Il grande storico Marc Bloch, entrato nella Resistenza francese e fucilato dai nazisti, citava sempre un proverbio arabo per spiegare l’indulgenza che si deve nell’interpretare eventi e personaggi: gli uomini assomigliano più al loro tempo che ai loro padri.

Ma al di là del giudizio morale, abbiamo veramente diritto a rottamare una statua, un’opera, un edificio, quando riteniamo che rimandi a qualcuno che ha provocato del male su questa terra? Perché se dovessimo cancellare i monumenti e le opere che rimandano al razzismo e al colonialismo, allora dovremmo bruciare anche gli scritti e i monumenti di Ungaretti, Pirandello e del filosofo Gentile, che erano fascisti. Ma seguendo questo ragionamento dovremmo estendere il metodo anche agli altri simboli del male e dunque buttar giù più statue di uno tsunami. Il guelfo bianco Dante Alighieri non era un pacifista e partecipò alla battaglia di Campaldino, su Garibaldi e Nino Bixio pesano ancora i massacri di Bronte. Caravaggio era un assassino e le sue modelle delle cortigiane. Dobbiamo per questo rottamare tutti i suoi quadri, manifestazione del sublime e capolavori assoluti nel rendere artisticamente la passione di Cristo? Al Colosseo i cristiani non se la passavano un granché bene. Tiriamo giù anche quello? E ricordiamoci di grattare l’icona di Mussolini che ancora si trova a fianco a quella di Vittorio Emanuele III tra le guglie del Duomo di Milano, in un trionfo di santi e beati.

Non sono le statue l’oggetto di un giudizio morale sui personaggi storici. Per quello ci sono le scuole, le università, i tribunali, i libri, i mass media, gli eventi culturali. L’uomo è un animale simbolico e ha bisogno di rappresentazioni mitologiche. È chiaro che in un Paese civile i miti costituiscono esempi da imitare per contribuire al suo progresso ma possono anche essere semplici testimonianze del passato o moniti da considerare in negativo. Per affrontare il presente l’uomo ha bisogno del suo passato. Gettare nell’oblio episodi e personaggi ci rende poveri e incapaci di affrontare il nostro avvenire, dissolvendo quell’ «enciclopedia universale», direbbe Umberto Eco, che ci permette di comunicare.

L’uomo, a differenza dell’animale, ha questa straordinaria capacità di leggere il simbolico, capace di portarci lontano nel tempo e nello spazio. Ed è questa attitudine che ci aiuta a capire dov’è il bene e il male, non certo l’oblio, peraltro tipico dei regimi totalitari che alla violenza hanno sempre affiancato i roghi dei libri (quello di Bebel Platz, dove nel 1933 si gettarono alle fiamme migliaia di volumi censurati dai nazisti, è esemplare). La furia iconoclasta, in altri termini, fa parte della stessa famiglia del male contro il quale si pretende di agire tirando giù statue.

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