Strappi nel M5S, tenuta difficile

È la penosa condizione dei separati in casa quello che si sta vivendo nel Movimento Cinque Stelle tra i fedeli di Giuseppe Conte e i sostenitori di Luigi Di Maio, sempre più lontani, sempre più nemici, in attesa del momento della verità, quello in cui si deciderà chi va dove, chi caccia chi, chi sbatte la porta e chi rimane. Pare che Grillo, così fa scrivere il comico, sia arrabbiatissimo per queste liti intestine e che sia pronto a scendere a Roma per mettere qualche riparo allo strappo. Ma neanche Grillo potrà sanare una rottura irrecuperabile (anche perché ha perso la gran parte dell’ascendente che un tempo esercitava in qualità di padre nobile e fondatore).

Certo, si tratta di vedere per esempio come, nel voto parlamentare sulle dichiarazioni del presidente del Consiglio prima del vertice europeo dedicato alla guerra in Ucraina, si comporterà Conte insieme ai tanti grillini che vorrebbero cancellare l’invio di armi a Zelensky. I più prevedono che questi stati umorali, al di là delle dichiarazioni, non potranno certo modificare il perimetro internazionale all’interno del quale l’Italia si muove, e che Conte stesso andrà cercando un qualche accordicchio verbale che gli consenta di dire: ho ottenuto qualcosa.

L’aria di compromesso si è già respirata nella riunione indetta dal sottosegretario agli Esteri Amendola con i partiti per scrivere la risoluzione di maggioranza che dovrà essere approvata. Il punto però è che all’Italia in quanto tale non è consentita un’ambiguità di posizione che Draghi per primo rifiuterebbe. Dunque Conte, che sa benissimo come stanno le cose essendo stato capo del governo, ha il problema di salvare la faccia pur cedendo su quello su cui si deve cedere. Un equilibrismo non nuovo per l’avvocato pugliese che tuttavia darà agio a Di Maio di collocarsi dalla «parte giusta» della politica internazionale.

Ma tutte queste, alle fine, sono chiacchiere. Quello di cui davvero si parla in queste ore nel Movimento è la questione del tetto al numero dei mandati parlamentari e dei versamenti di deputati e senatori ai gruppi M5S, e come – qualora davvero Di Maio dovesse andarsene o essere espulso - questa discussione influirà sulla scissione prossima ventura. Insomma: chi andrà nel nuovo partito dimaiano difficilmente dovrebbe rispettare il divieto di candidarsi per la terza volta alla Camera e al Senato: avrebbe ancora la possibilità, qualora fosse eletto, di farsi chiamare onorevole e di incassare l’abbondante emolumento mensile. Si parla allora di un compromesso possibile: due mandati a Montecitorio e Palazzo Madama e altri due nei consigli regionali e comunali.

Un pastrocchio, come si capisce, che finirebbe per deludere quella residua parte di elettorato rimasta fedele agli slogan dei primi tempi gloriosi del grillismo. Ciò non toglie che davvero Di Maio stia pensando di fondare un suo partito «governativo» e schierato a favore di Mario Draghi. Per questa ragione si fanno previsioni su futuri nuovi raggruppamenti di centro, o moderati, o riformisti cui Di Maio potrebbe costituire un punto di riferimento. Quanti parlamentari potrebbe portarsi dietro? I suoi fedelissimi giurano che sarebbero almeno cento, altri più realisticamente si fermano a quota sessanta. Comunque vadano le cose, se i separati in casa si diranno davvero addio, quello sarà il momento della fine di un Movimento sorto dal nulla, divenuto addirittura primo partito italiano e precipitato nel corso di una sola legislatura nel vuoto dell’irrilevanza politica. A riguardare i precedenti storici della Repubblica, un destino simile a quello del Movimento dell’Uomo Qualunque del cavalier Giannini, fondatore – appunto – del «qualunquismo».

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