Tim, la posta
in gioco è alta

La letteratura accademica sulle Offerte pubbliche di acquisto insegna che l’attenzione degli acquirenti si rivolge verso quelle imprese che hanno un potenziale di crescita e di miglioramento inespresso. Ma questo è solo un modo elegante per dire che oggi Tim, oggetto dell’interesse del fondo americano Kkr, spreca una bella parte delle opportunità che il suo posizionamento le offrirebbe. Per essere ancora più espliciti: è inefficiente e inefficace, forse perché adagiata sull’inerzia di quello spirito «di bandiera», quasi monopolista, che è ormai svanito da tempo.

Lo dice la sua deprimente quotazione di Borsa, lo dicono i soci di maggioranza francesi che già stavano sollecitando un cambio del management. Se fosse un’azienda qualunque, non mi porrei molte domande e liquiderei la cosa con un «fatti loro e vinca il migliore». Se fosse l’altra società «di bandiera», quella aerea, direi: «evviva, finalmente qualcuno se la prende» (ma questo purtroppo non accadrà). Qui però c’è di mezzo qualcosa di più importante: la rete di telecomunicazioni evolute che collega l’Italia, ciascuno di noi, a quel mondo parallelo che si chiama web, che è detto virtuale ma ormai fa parte della concreta quotidianità di tutti noi. Non pensate ai telefonini, né tantomeno alle linee fisse. Il fondo Kkr chiede il tutto ma vuole una parte ben precisa: la società che implementa e gestisce la rete appunto, di cui peraltro è già socio importante.

E qui la partita si fa delicata. È un gioco di equilibri sottili fra legittimi interessi nazionali e la dimensione internazionale, globale che devono avere le reti di comunicazione al giorno d’oggi. Che, ognuno comprende, per definizione non possono più essere viste come un puzzle di sottosistemi nazionali. La visione di Kkr è di inserire l’Italia e la sua società di gestione della rete in una prospettiva molto più ampia, insieme agli altri pezzi di rete che già possiede. In un’ottica di profitto certo, ma che nel medio periodo non confligge con l’esigenza del nostro sistema.

Può lo Stato italiano affidare un tema così importante a un operatore privato, straniero e aggiungiamo, con una grande potenza finanziaria? Evidentemente no, soprattutto al momento della partenza del Pnrr che ha nella digitalizzazione uno dei suoi pilastri. Ma non può neppure far finta di nulla e rinchiudere Tim nel suo angusto orticello domestico. Proprio perché parliamo di una struttura strategica, occorre pensarla in una visione più ampia, aperta, da protagonisti insieme ad altri protagonisti. Non è la difesa dell’italianità di un’azienda in quanto tale, come temo sentiremo ripetere dal coro, questa volta unanime, dei politici in tv. È davvero la tutela di un interesse nazionale da cui dipenderà la competitività del Paese nei prossimi anni. Il governo dispone dei poteri per derogare, per questa volta, alle leggi del mercato e costruire un opportuno schema di gestione del nuovo assetto. Imperniato sulla Cassa Depositi e Prestiti, braccio finanziario dello Stato, già socio di maggioranza di Open Fiber che proprio questo sta facendo.

La posta in gioco non è meramente finanziaria, ma molto più alta. Dopo la sua privatizzazione, Telecom, la progenitrice di Tim, è stata oggetto di ripetuti passaggi di proprietà, a volte di vere e proprie scorribande corsare. Tutto questo non le ha fatto bene, anche solo perché le ha lasciato in capo un debito monstre di quasi 30 miliardi. Ma questa volta è diverso. Il disegno sottostante è interessante e l’interlocutore è serio. Il Governo italiano dovrà essere all’altezza di un confronto impegnativo e decisivo per il nostro futuro.

© RIPRODUZIONE RISERVATA