Transizione energetica, il debito in comune

ECONOMIA. Bosch è il più grande fornitore per l’industria automobilistica del mondo. Ha 430mila dipendenti e 90 miliardi di euro di fatturato. L’azienda ha fissato un margine di redditività (Ebit ) del 7% per poter continuare ad essere indipendente.

Negli ultimi dieci anni il valore è stato raggiunto solo una volta, nel 2017. Nello scorso anno si è fermato al 5%. Il problema è la competitività cioè la capacità di stare sul mercato a fronte di una concorrenza che avanza sia negli Stati Uniti che in Asia. L’Europa è questa. Una delle sue migliori espressioni industriali la rappresenta a pieno. Nell’indice di competitività digitale redatta dal «World competitiveness center» di Losanna la Germania è al 23° posto, l’Italia al 43°. L’Unione europea è rappresentata nei primi dieci dai Paesi del Nord, Olanda e a seguire Danimarca, Svezia e Finlandia. Troppo piccoli per fare tendenza. Il resto arranca ed è il motivo che ha indotto la Commissione europea a farsi carico del problema.

A meno di tre mesi dalle elezioni europee del prossimo giugno, langue il dibattito su un punto cruciale del futuro dei 27 Stati. Soprattutto in Italia che ha in Mario Draghi e in Enrico Letta le personalità scelte dalla Commissione per redigere rispettivamente un rapporto sulla competitività e sul mercato unico nell’Unione. Una domanda potrebbero porsela gli addetti ai lavori e soprattutto gli elettori. Com’è possibile che la Germania, pilastro dell’industria europea, sia passata dai surplus dell’export, che superava di molto il consentito fissato al 6%, di colpo sia collassata? Per il presente anno l’Ifo di Monaco di Baviera prevede una crescita dello 0,2% contro lo 0,7% programmato. La Corte dei Conti tedesca contesta al governo di mettere a rischio l’approvvigionamento energetico. Poiché le rinnovabili che provengono dal sole e dal vento non hanno un flusso regolare, si teme che le batterie che immagazzinano energia nei momenti di alta produzione non bastino per affrontare situazioni di emergenza. Inoltre la dotazione di nuove reti distributive non riesce a tenere il passo con il piano predisposto. Il ritardo è di seimila chilometri. Tradotto in tempi esecutivi vuol dire sette anni. Tutto questo ha delle ripercussioni. I prezzi per la corrente elettrica continuano a salire e sono tra i più cari d’Europa. Il 42,7% in più della media europea per i consumi familiari, per le industrie in ragione degli incentivi statali del 5%.

Queste incertezze si riflettono sulle prestazioni economiche e rendono il passaggio all’elettrico oneroso per le casse pubbliche. Si calcolano 1.100 miliardi di euro al 2045. Nel frattempo le auto elettriche non fanno il balzo che si pensava e l’amministratore delegato di Bosch, Stefan Hartung, prevede che su un parco auto mondiale calcolato in 1,4 miliardi di veicoli, a fronte della produzione globale del momento ci vorranno 30-35 anni per dare al mondo una copertura completa di vetture non inquinanti.

La crisi energetica per un continente che non ha fonti proprie di approvvigionamento diventa nei momenti di passaggio come questo un fattore che incide sul futuro industriale e quindi sulla sovranità dei singoli Paesi dell’Unione. È uno di quei momenti in cui l’economia diventa scelta politica. Draghi ha già detto più volte in sedi istituzionali che ci vogliono 500 miliardi per finanziare la digitalizzazione e la transizione energetica. Per ottenere questi crediti andranno emessi titoli garantiti dell’Unione europea. Questo spiega la disponibilità del partito di Giorgia Meloni a interloquire con Ursula von der Leyen. Vanno convinti gli elettori tedeschi che condividere il debito con gli italiani è sempre meglio del declino industriale e della sudditanza globale.

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