Traslochi d’impresa
regole da rivedere

Su iniziativa dell’Advisory Board Investitori esteri di Confindustria, in collaborazione con l’Università Luiss Guido Carli, lo scorso maggio è stato costituito a Roma l’Osservatorio imprese estere in Italia. L’organismo si propone di rappresentare un importante punto di riferimento a livello nazionale per la raccolta, l’analisi e la divulgazione di dati e informazioni su tale preziosa filiera industriale. Presente all’inaugurazione, il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti ha dichiarato: «Sono consapevole del ruolo svolto dalle multinazionali estere in Italia non solo in termini di impatto economico, ma anche dal punto di vista della sostenibilità ambientale e sociale grazie anche allo stretto legame che unisce queste aziende ai territori e alle filiere produttive nazionali» […] «Come governo siamo impegnati a creare le condizioni per superare carenze strutturali e l’eccessivo peso della burocrazia che rappresenta da sempre un disincentivo ad investire in Italia».

In realtà il nostro Paese, malgrado abbia tutte le potenzialità socioeconomiche per essere molto attrattivo, ha usufruito di minori investimenti diretti esteri rispetto alle maggiori economie europee. Questo oltre che per l’inefficienza della burocrazia, per la lentezza della nostra giustizia, per un sistema fiscale troppo complesso e per un quadro normativo instabile. Ciononostante, il valore strategico delle grandi imprese a capitale estero presenti sul territorio si dimostra di notevole portata per molteplici ragioni. Anzitutto, contribuiscono a rafforzare le capacità della nostra economia di competere a livello globale, generando effetti positivi e propulsivi su indotto, filiere e accesso ai mercati esteri. Inoltre, operano prevalentemente in settori di elevata tecnologia, favorendo gli investimenti in ricerca e innovazione. Pur rappresentando soltanto lo 0,3% del totale delle imprese residenti, il comparto nel suo insieme occupa il 17,9% dei lavoratori del settore privato, contribuisce al 15,1% del valore aggiunto, genera il 18,3% del fatturato e il 14,4% degli investimenti. Tale forza produttiva genera un complessivo investimento in ricerca e sviluppo di 3,7 miliardi di euro, pari al 25,5% della spesa privata.

Dopo la crisi cominciata nel 2008, già dal 2016 le imprese a capitale estero avevano superato i livelli pre-crisi, evidenziando anche una sorprendente resilienza durante l’emergenza Covid e imprimendo una forte accelerazione al percorso verso un nuovo modo «ibrido» di lavorare in azienda. In tale incoraggiante scenario, sono tuttavia emerse complesse situazioni di alcune aziende che, per ricercare condizioni più convenienti sul piano del costo del lavoro e degli oneri fiscali, hanno deciso senza manifesti problemi di bilancio di delocalizzare la produzione in altri Paesi. Ampio spazio mediatico è stato dato la scorsa estate ad alcuni casi apparsi particolarmente censurabili sul piano della correttezza operativa e del rispetto dei diritti dei lavoratori. Basti pensare alle vicende della «Gianetti ruote», azienda di Ceriano Laghetto di proprietà del fondo tedesco Quantum Capital Partner, che via mail ha annunciato la chiusura della fabbrica e il licenziamento di 152 dipendenti.

Con la stessa procedura è avvenuto il licenziamento di 422 dipendenti della «Gkn driveline» di Campi Bisenzio, azienda multinazionale di componentistica auto controllata dal fondo inglese Melrose. Questi casi esemplari, evidenziano i rischi a cui si può essere soggetti quando il capitale di una società è posseduto da «fondi» che, per loro natura, guardano soprattutto a realizzare profitti immediati, piuttosto che attuare piani di crescita profittevoli a medio e lungo periodo. Tali situazioni sono destinate a moltiplicarsi nel tempo in virtù della crescente tendenza di potenti fondi internazionali ad assumere il controllo del capitale di aziende. È quindi necessario e urgente che in sede europea si ponga freno al problema delle delocalizzazioni intracomunitarie, promuovendo un graduale riequilibrio dei rapporti legislativi e fiscali tra gli Stati membri. Nel frattempo, il nostro governo dovrebbe quanto prima provvedere a definire più chiaramente e applicare pesanti penalizzazioni economiche verso ogni comportamento aziendale che si dimostri essere censurabile sul piano dell’etica gestionale.

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