Troppo odio, il tackle di Gosens sui social

IL COMMENTO. Spiazzante come quando scattava sulla fascia in maglia nerazzurra. Quella giusta, quella dell’Atalanta, perché il passaggio a Milano sponda Inter non è stato ugualmente soddisfacente per Robin Gosens, ora tornato in Germania nelle fila dell’Union Berlino.

Giocatore e uomo mai banale, arrivato a Bergamo da perfetto sconosciuto e con un curriculum calcistico decisamente striminzito (solo squadre olandesi di seconda-terza fascia) si è subito distinto sia per l’incredibile crescita tecnica che per le prese di posizioni mai scontate, anche fuori dal mondo del calcio. E al ritorno in patria (dove gioca per la prima volta nella sua carriera da professionista) non ha perso l’abitudine, dicendo la sua sul complicato mondo dei social. Un tackle deciso, senza compromessi, senza fare fallo ma lasciando il segno. Tutto nasce dalla richiesta d’autografo di un tifoso dell’Union: niente di strano, se non fosse che Gosens lo riconosce come quello che poche settimane prima lo aveva insultato sui social in modo pesante, augurando la morte a lui e alla sua famiglia. «Questi eventi evidenziano un grande problema: la nostra società è mossa dall’invidia. Molti vengono divorati da questo sentimento e l’unico modo che hanno per sentirsi bene è quello di dire ad altri che tutto quel che fanno fa schifo e non vale niente. Si genera odio, troppo odio» la considerazione del giocatore, da condividere e sottoscrivere in pieno. Una fotografia impietosa della deriva che stanno prendendo i social che fa il paio con l’imperitura considerazione di Umberto Eco all’Università di Torino nel 2015 al momento di ricevere la laurea honoris causa: «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività».

Ai tempi era forse sembrata una definizione tranchant o un eccesso di snobismo intellettuale, con il passare del tempo (nemmeno tanto, in verità) la deriva è stata irrefrenabile, al punto tale che spesso il mondo social si è rivelato un posto infrequentabile, spesso più di quello reale. Il paradosso sta nel fatto che chi crea maggiori problemi non sono i giovani o i giovanissimi (che si muovono in loro nicchie, con problemi diversi), ma la generazione che ha abbondantemente superato gli «anta» e dalla quale ci si aspetterebbe un atteggiamento se non costruttivo quanto meno civile.

Troppo odio, ha ragione Gosens, accompagnato da un’invidia sociale che fa male: «Le persone di successo non lo sono per grazia ricevuta ma perché hanno lavorato duro e hanno fatto dei sacrifici» scrive ancora il tedesco che a una tendenza ad essere «tuttologi» che manco il Pico De Paperis (almeno lui faceva sorridere...) di paperopolese memoria contrappone una sana etica del lavoro. Quella che le cose le fa conquistare giorno dopo giorno e non ad effimeri colpi di like in un consenso virtuale che spesso, quando si confronta con la realtà delle cose, offre brutte sorprese. Realtà che per propria natura è inevitabilmente complessa e non può essere semplificata con posizioni di tipo manicheo o le facili soluzioni di chi sa risolvere sempre tutto a colpi di tastiera e un atteggiamento generalmente bifronte: inflessibile con gli altri (se ai margini della società meglio...), generalmente assolutorio con se stesso per svariati e sempre validi motivi.

Troppo odio. Quello che Gosens ha rilevato in poche righe lo viviamo ogni giorno sui grandi e piccoli temi nazionali ma anche locali, dove i social sono terreno più di scontro che di confronto, in un sistema che avrebbe dovuto avvicinare e invece allontana le persone: divisorio a prescindere invece che comprensivo. Un (gigantesco) bar, come aveva acutamente capito Eco, che purtroppo non tira mai giù la saracinesca, dove nessuno pulisce mai il bancone e l’ubriacatura è lì a portata di click.

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