Tutti arbitri
e in campo
nessuno

Dulce et decorum est pro patria mori. È dolce e bello morire per la patria. Altri tempi quelli di Orazio. Non solo i politici, anche i poeti sentivano allora
il dovere morale di sollecitare i propri concittadini a vivere da eroi per la salvezza della patria. Lasciamo perdere gli eroi. L’Italia del XXI secolo non è un Paese (fortunatamente) per eroi. Le basterebbe trovare persone degne che accettino, più modestamente, di candidarsi ad amministrare le loro piccole patrie: i Comuni. Richiesta che cade per lo più nel vuoto, a giudicare dalla difficoltà che i partiti incontrano a proporre dei nomi autorevoli alla guida delle città, delle grandi in particolare, compresa la Capitale.

Caduta generalizzata del senso civico? Timore di finire equiparati all’invisa Casta? Forse sì, ma c’è molto altro. Scoraggia a mettersi in gioco anche la prospettiva di consegnarsi nelle mani di partiti pronti a scaricare l’esterno alla prima occasione. Non deve riuscire nemmeno troppo allettante la proposta di lasciare la professione per un lavoro a scadenza, per di più mal retribuito, per non dire dell’alea di incorrere in pesanti guai giudiziari, per lo più per il discutibile reato di «abuso d’ufficio», che sottopone l’amministratore all’insindacabile discrezionalità del giudice. Due casi giudiziari da brivido: il sindaco di Napoli Antonio Bassolino inquisito 19 volte e 19 volte assolto; il primo cittadino di Lodi Simone Uggetti, finito agli arresti domiciliari e dopo cinque anni assolto «per non aver commesso il fatto».

La riluttanza della cosiddetta società civile a «scendere in campo» non va fraintesa. È sicuramente un altro brutto sintomo della crisi della nostra democrazia. Non è però la sua causa. È una ricaduta della cattiva nomea di cui gode il ceto politico. Unanime la denuncia del suo decadimento, ma poche - e confuse – sono le idee che circolano sui possibili rimedi.

Lo sconcerto per lo stato pietoso della nostra classe politica ci porta paradossalmente a rimpiangere, dopo averla maledetta in nome della «questione morale», la stagione in cui l’Italia poteva schierare nomi eccellenti come De Gasperi, Nenni, Moro, Berlinguer (per il sottoscritto anche Craxi): politici autorevoli e capaci (alcune volte fin troppo). Si lamenta la scomparsa delle scuole di partito che hanno sfornato generazioni di politici e di amministratori, anche se l’asserzione non è del tutto vera. La formazione dei politici avveniva in realtà sul campo, a diretto contatto con i problemi e le attese dei cittadini.

Non è rifugiandoci nella nostalgia dei bei (?) tempi passati (appunto, passati) che si può sperare in una correzione della rotta. Né serve a molto limitarsi a puntare il dito sulle, pur innegabili, plateali manchevolezze dell’attuale ceto politico. L’operazione rischia di risolversi in un’auto-assoluzione, di sentirci cioè vittime del tutto incolpevoli del disastro attuale. Invece, se si vuol fermare la spirale che ci sta facendo precipitare sempre più in basso (più disgusto per i politici = più antipolitica = più decadimento degli eletti = più disgusto e così via) servirebbe una reazione della società civile. Un’opinione pubblica più avvertita e reattiva non si lamenterebbe di amministratori incapaci (facciamo dei nomi: la Raggi a Roma e De Magistris a Napoli) per poi rivotarli (il secondo alla riconferma si è superato raccogliendo addirittura il 62%, la prima è oggi incoraggiata a ricandidarsi, inaspettatamente forte nei sondaggi del 25%). In altri tempi, si usava dire cinicamente: abbiamo i politici che ci meritiamo. Oggi dobbiamo riconoscere che abbiamo i politici e i partiti che scegliamo, anche dopo averne sperimentato non felici prove. Difficile in queste condizioni invertire la corsa verso il peggio.

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